I Santi non più Santi e un ‘Santo’… che abbaiava.
di Roberto Volterri
Roma è la città dalle mille e una chiesa.
Roma è anche la città dove, in ogni chiesa, è ovviamente possibile pregare un Santo, spesso il “proprio” Santo…
Chi si chiama, ad esempio, Pietro sa bene dove andare…
Chi si chiama Giovanni non ha che l’imbarazzo della scelta…
Ma chi si chiama Alessio può essere certo che lassù, nell’alto dei Cieli, il ricco figlio del senatore Eufimiano, fattosi mendicante, lo possa ascoltare?
Forse no, poiché papa Paolo VI, al secolo Giovanni Montini, con la Lettera Apostolica “Mysterii paschalis celebrationem” datata 14 Febbraio 1969 approva un nuovo, diverso, ordinamento dell’Anno Liturgico in cui ha cancellato più di trenta Santi – Alessio compreso – per i quali le ricerche in ambito agiografico non hanno fornito prova alcuna dello loro storica esistenza.
2. Immagine sopra. Sant’Alessio, dal 1969… non più Santo, raffigurato con il corpo emaciato mentre sosta, poco prima di morire, sotto la scala del ricco palazzo paterno.
Tra i Santi… non più Santi infatti c’è anche un Alessio, patrizio di Costantinopoli vissuto nel V secolo, figlio di Eufimiano e di tale Algalè, fidanzato con una pia cristiana che lo convince a rinunciare al matrimonio proprio la sera delle nozze. Alessio sarebbe quindi partito per la Turchia, sarebbe passato per Laodicea e per l’attuale Sanlurfa dove decide di abbandonare ogni ricchezza e diventare mendicante, da tutti chiamato “Mar-Riscia”, ovvero “Uomo di Dio”.
A Sanlurfa – una volta chiamata Edessa – poco prima di morire in un ospedale egli rivela la sua vera identità, confessa di aver rinunciato al matrimonio per consacrarsi a Dio e viene dal popolo onorato e venerato.
Altre fonti agiografiche lo vedrebbero tornare a Roma dove, non riconosciuto neppure dal padre a causa dei disagi dovuti alla sua errabonda vita da mendicante, vive in uno stato di completa indigenza per circa diciassette anni sotto le scale del ricco palazzo del padre e in articulo mortis scrive una breve lettera che stupisce gli ignari genitori. Poi Alessio viene accolto tra le fredde braccia della Nera Signora mentre le campane di Roma, senza essere toccate, emanano un gioioso suono e il suo corpo emana piacevolissimi effluvi…
3. Immagine sopra: La navata principale della splendida Basilica di Sant’Alessio, a Roma.
Leggenda agiografica o meno, essa è meta di migliaia di fedeli che onorano la vita, la triste morte e i miracoli a lui attribuiti…
Ma sull’Aventino c’è la splendida chiesa– dedicata inizialmente solo a San Bonifacio – anche a lui dedicata nell’Anno del Signore 977 perché proprio in quel luogo c’era la casa del giovane patrizio romano, dove poi sorse un Cenobio di monaci che provenivano da Damasco, monaci che sostenevano il culto a lui dedicato,
Quindi, perché non continuare a mantenere vivo il ricordo delle sue vicende terrene, a recarsi in preghiera nella splendida Basilica situata a Roma nella piazza che porta il suo nome?
Santa Felicita e Santa Perpetua… sono veramente esistite?
Con i Santi “cancellati” per decreto papale potremmo andare avanti ancor per molte pagine, ricordando ad esempio che nella lista dei santi più “sfortunati” ci sono anche
San Paolo Eremita, Santa Barbara, Santa Caterina di Parigi, i Santi Lucia e Geminiano e così via.
Ma lo spazio è quel che è, quindi ci limitiamo a ricordare che mai sarebbero esistite le Sante Perpetua e Felicitas.
O almeno così sostengono alcuni studiosi di Agiografia come l’avvocato e saggista della Svizzera italiana Emilio Bossi (1870 – 1920) – ma si firmava “Milesbo” – il quale ipotizzò come l’augurio latino “Perpetua felicitas”, di facile traduzione, fosse stato usato per “costruire” vita, miracoli e morte di due inesistenti donne in “odor di santità”.
Sempre a Roma, nel quartiere Portuense c’è inoltre la curiosa chiesetta di Santa Passera. Meno male che non ci risulta che a qualche gentile fanciulla sia stato dato questo nome poiché una Santa di nome Passera… non è mai esistita!
4. Immagine sopra. La graziosa chiesetta di Santa Passera a Roma, purtroppo… mai esistita davvero.
5. Immagine sopra. Il suggestivo interno della chiesetta dedicata a Santa Passera, frutto soltanto di continui errori di trascrizione su antichi documenti.
Agli inizi del V secolo a Roma da Alessandria d’Egitto giungono le mortali spoglie di due Santi, Ciro e Giovanni, poi in documenti redatti tra XI e XIII secolo la chiesetta ad essi dedicata viene denominata Sancti Abbacyri, oppure Abbàs Cyrus, cioè “Padre Ciro”. Passano gli anni e un secolo più tardi tale denominazione nelle pergamene diventa Santa Pàcera tanto che in un documento dell’anno 1317 viene menzionato un appezzamento di terra “… posita extra portam Portuensem in loco qui dicitur S. Pacera…”.
Si sa bene che il popolo ha la tendenza a storpiare un po’ nomi, in particolare quello dei Santi…
Così, col passar degli anni, Abbàs Cyrus diventa Appàciro, poi Appàcero, successivamente abbreviato in Pàcero o Pàcera e infine Passera.
La Santa… mai esistita!
Un’ altra Santa sfortunata…
Nei primissimi anni dell’ottocento, tale Don Francesco de Lucia si reca a Roma ed esprime il desiderio di portare nella sua chiesa, a Mugnano del Cardinale in provincia di Avellino, il corpo di un Santo.
Evidentemente il pio sacerdote ha importanti amicizie in Vaticano poiché dal Custode delle Sacre Reliquie ottiene il permesso di portare con se i poveri resti – forse solo pochissime ossa e tracce di un liquido rossastro interpretato come sangue – attribuiti ad una giovane che sarebbe stata tumulata nelle Catacombe di Santa Priscilla, sulla Via Salaria.
In effetti, nel 1802 durante ricerche effettuate sotto la supervisione della Santa Sede è stata trovata la sepoltura di una giovane, sepoltura indicata da tre mattonelle in terracotta con le iscrizioni “LUMENA”, “PAX TE”, e “CUM FI”.
6. Immagine sopra. Nelle Catacombe di Santa Priscilla, a Roma, nel 1802 furono trovate tre mattonelle con queste scritte…
In questa sequenza non è possibile arguire il nome della giovane e così si pensa che la posizione delle mattonelle sia stata invertita.
Riposizionandole convenientemente si ottiene allora una frase comprensibile e, finalmente, un nome…
7. Immagine sopra: “Pax tecum Filumena”, “Che la pace sia con te, Filomena”
Il caso sembra così risolto e il De Lucia nel 1824 presenta una sua un po’ immaginifica “Relazione istorica della traslazione del sacro corpo di S. Filomena da Roma a Mugnano”, scrive un’immaginaria biografia della fanciulla basandosi sui simboli trovati sulle mattonelle e riferisce che qualche miracolo sembra verificarsi presso le reliquie della Santa che così rimane fino alla revisione del Martirologio Romano.
Ma non emergono mai ulteriori prove che sia veramente esistita una martire con quel nome, uccisa sotto Diocleziano, e così anche la sfortunata Filomena, negli anni Sessanta, viene cancellata dall’elenco dei Santi “accreditati”!
San Guinefort, e i ‘miracoli’ di un Santo… levriero
Anno del Signore 1250. Regione di Dombes, villaggio di Neuville, borgo contadino poco a nord di Lione, Regno di Arles.
Qui, nel piccolo castello del Signore di Villars vivono il nobile cavaliere, la sua sposa, una nutrice e il bambino nato dalla loro felice unione.
Dimenticavo… c’è anche un bel cane, un levriero, quasi il vero custode del bambino, un levriero che diventa il coraggioso, sfortunato, protagonista di quel lontano e quasi miracoloso avvenimento.
Si sa come vanno le cose in aperta campagna e un brutto giorno nel castello entra una semplice serpe, forse neppure una più pericolosa vipera, che cerca di intrufolarsi nella culla dove placidamente dorme il piccolo erede dei signori di Villars.
Il levriero, accortosi del pericolo, azzanna rapidamente la serpe macchiandosi però sia le zampe che il muso con il sangue del rettile…
La nutrice, forse attratta dal trambusto, accorre e lancia urla disumane pensando che il sangue fosse quello del piccolo. Le sue invocazioni di aiuto fanno accorrere anche il prode cavaliere che – senza dubbio “prode senza macchia e senza paura” ma eccessivamente avventato! – con la spada uccide il povero cane lì rimasto del tutto ignaro su quanto fossero ingiusti e ingrati gli esseri umani…
8. Immagine sopra. In un’antica stampa è raffigurato l’evento che fece diventare “Santo” un coraggioso ma sfortunato levriero.
Se genitori e nutrice avessero atteso un attimo ancora prima di passare a vie di fatto con il povero levriero, forse non sarebbe mai nato uno strano culto che volle “santificare” un cane, un levriero a cui, poco più tardi, si attribuiscono molti ‘miracoli’.
Infatti il bimbo è ancora vivo, molto spaventato da quel che è successo ma ancora vivo e vegeto nella sua culla e tutto il sangue che aveva macchiato il muso di ciò che resta del povero segugio è di una serpe fatta a pezzi proprio dal levriero intervenuto a proteggere il bambino dei suoi padroni!
Il più che prode ma avventato Cavaliere di Villars si pente amaramente, si dispera tardivamente ma ormai il danno è fatto poiché egli ha ucciso chi, a rischio della propria vita, ha salvato il loro unico erede.
Il levriero viene seppellito in una sorta di pozzo scavato in un terreno adiacente, un cumulo di pietre viene messo sopra la nuda terra e intorno vengono piantati piccoli arbusti che, col passar degli anni, danno vita ad un vero e proprio bosco.
Narrano le leggende agiografiche come il castello venisse in seguito distrutto “dall’ira divina” e così l’oblio cade sul Cavaliere “senza macchia e senza paura” ma anche eccessivamente distratto e iracondo…
L’oblio, però, non cade sulla vicenda del seppellimento del levriero nel bosco, i contadini rileggono l’accadimento in un’ottica di religiosità popolare, considerano lo sventurato levriero come una sorta di “martire delle Fede” ed intorno ad esso nasce un culto alimentato anche da una locale anziana donna – una sorta di fattucchiera – che suggerisce alle contadine di recarsi sul luogo dove è stato sepolto il levriero per invocare il “Santo levriero” affinché posa guarire i loro bambini, in ricordo di quanto era avvenuto molto tempo prima.
9 Immagine sopra. Forse “San Guinefort” , il levriero proclamato Santo.
10. immagine sopra: Un’altra curiosa immagine di un Santo con la testa di cane. Stando al nome scritto in greco sarebbe San Cristoforo. Iconografia forse derivata dalla tradizione del generoso cane proclamato Santo a causa dell’avventatezza del Cavaliere di Villars, il suo distratto padrone.
Anzi, per dare maggior spessore probatorio ai ‘miracoli’ che sembrano avvenire sul tumulo sotto cui è sepolto il cane, danno a quest’ultimo il nome di Guinefort – forse dal termine popolare francese guigner che significherebbe “dare furtivamente uno sguardo, fare la guardia” – e lo elevano agli onori degli altari proclamandolo… “Santo”!
11. Immagine sopra: No, non è “San Guinefort”, il “Santo levriero” ma è un’altra raffigurazione di un Santo cinocefalo, San Cristoforo, nell’iconografia diffusa nel Cristianesimo orientale. Però rende l’idea…
Però ben si sa che “il Diavolo fa le pentole ma non i coperchi” e al culto appena nato si sovrappongono nuvole di “zolfo” poiché, a metà del XIII secolo, le contadine raccontano all’Inquisitore domenicano Etienne de Bourbon (1180 – 1256) che i loro pargoli infermi portati sulla tomba di San Guinefort, in realtà non sono i loro veri figli ma sono il frutto dei loro blasfemi rapporti con le magiche creature del bosco, con i dèmoni che per tormentare le madri trafugano il bambino sano e lo sostituiscono con uno malato.
Secondo l’Inquisitore il rito di sostituzione viene completato con offerte di sale, stendendo delle fasce di stoffa sui rami che circondano la tomba del cane – ormai diventato ufficialmente San Guinefort – e infiggendo dei chiodi negli alberi stessi, passando nove volte – uno dei numeri “kabbalistici” per eccellenza! – i bambini nudi tra due alberi, abbandonandoli nudi nel bosco davanti ad una candela accesa e infine immergendoli, per le solite nove volte, nelle gelide acque del fiume Chalaronne.
12. Immagine sopra: Streghe di campagna in un suggestivo dipinto di Francisco Goya, abbastanza simili a quelle che potrebbero aver indotto i poveri contadini del villaggio di Neuville a praticare un culto in cui veniva idolatrato un levriero ucciso dal proprio iracondo padrone…
Con questi barbari rituali le madri affette da così grande ignoranza pensano seriamente di decolpevolizzarsi dall’aver messo al mondo bambini malaticci e gracili.
Nel caso il bambino muoia – con i barbari metodi con cui lo trattavano non sarebbe potuto accadere diversamente! – esse deducono che le potenze “demoniache” si sono tenute il bimbo sano e lo hanno sostituito con uno malato.
Invece, nel caso il pargolo riesca a sopravvivere, vuol dire che è intervenuto San Guinefort, proteggendolo contro le forze del “Male”.
Tutto ciò è di certo in odor di barbaro paganesimo e il severo domenicano Etienne de Bourbon non può sopportarlo, così fa riesumare i resti del cane, del “Santo leviero”, e li fa bruciare insieme a tutto il bosco.
Non contento redige un exemplum, una sorta di breve racconto, in cui il protagonista, in base ad un determinato comportamento, raggiunge certi risultati che conducono di solito alla salvezza dell’anima e leggendo il quale appaia chiaro a chiunque come il Diavolo possa illudere gli “illetterati” e dar vita a falsi e blasfemi culti.
Dalla metà del XII secolo l’exemplum con i suoi segreti sul culto dedicato a San Guinefort rimane nel chiuso di qualche biblioteca, finché nel 1877 lo storico francese Lecoy de la Marche (1839 – 1897) porta alla luce l’antico scritto. Ma è solo oltre un secolo più tardi che un altro storico, Jean Claude Schmitt, dà alle stampe il libro “ Il santo levriero” (Einaudi) in cui tutto ciò che fino a qui avete letto viene analizzato dettagliatamente in chiave agiografica e storica
Però, nonostante il culto del “Santo levriero” fosse stato debellato, ancora in tempi recenti esso era ancora presente in alcune aree vicine ai luoghi dove il tutto aveva avuto origine. Così si è cercato di sovrapporre il culto per il “santo“ cane a quello per un vero mistico irlandese, il vero San Guinefort, il quale, in tempi ormai molto lontani, è stato martirizzato in quel di Pavia e lì sepolto il 7 Gennaio 1790 nella chiesa dei Santi Gervasio e Protasio.
(Roberto Volterri)