IL “VICHINGO” DI CECCANO E “L’UOMO CHE GUARDA” DELL’ISOLA DI FÅRO.
di Giancarlo Pavat
La notizia della scoperta nel territorio del comune di Ceccano, in Ciociaria, di alcuni megaliti che sembrano opera dell’uomo e, in particolare di un enorme masso, alto oltre 2 metri che sembra raffigurare un volto umano barbuto, subito soprannominato “Il Vichingo”, sta suscitando notevole interesse anche al di fuori della provincia di Frosinone e del Lazio. In particolare a molti lettori ed appassionati ha riportato alla mente altre sculture (o supposte tali) in Italia e nel Mondo. Ad esempio, sono stati citati sia il “Volto megalitico” di Borzone nel comune di Borzonasca in Liguria che le enigmatiche “sculture” di Marcahuasi a 4000 metri di quota slm in Perù.
(a sx: il “Volto megalitico” di Borzone, a dx il “Volto umano” di Marcahuasi in Perù).
Giova ricordare che nel caso italiano ormai non sussistono più dubbi sull’origine artificiale del “Volto barbuto” (si discute però a quale epoca risalga e chi possano essere gli artefici; recentemente lo si è attribuito ai monaci medievali della vicina Abbazia di Sant’Andrea di Borzone, filiazione di quella rinomatissima di San Colombano di Bobbio) mentre per i monoliti andini il dibattito è ancora aperto e decisamente infuocato.
Le “sculture” di Marcahuasi, arido altopiano di origine vulcanica, vasto circa 4 chilometri quadrati, situato nella provincia andina di Huarochiri, a est di Lima, assieme a strutture preandine (forse risalenti al VIII secolo d.C.), vennero scoperte dall’archeologo peruviano (appassionato di esoterismo) Daniel Ruzo (1900-1991) che le rese note al mondo con il libro “La historia fantástica de un descubrimiento” del 1974.
Sparsi sull’altipiano spazzato dai venti, vennero individuati da Ruzo moltissimi massi che sembravano ( e sembrano) scolpiti da mano intelligente e non modellati da agenti atmosferici. Si tratta di figure antropomorfe, zoomorfe e mitologiche, oltre a quelli che appaiono come misteriosi petroglifi e dimenticate simbologie. Secondo Daniel Ruzo queste “sculture” risalirebbero ad una scomparsa civiltà prediluviana (forse indentificabile con le mitiche Atlantide e Mu) che chiamò “Masma”.
A parlarne per primo al pubblico italiano fu il celebre scrittore e ricercatore Peter Kolosimo (pseudonimo di Pier Domenico Colosimo; 1922–1984), nel suo libro “Non è terrestre”, Sugar 1968), vero e proprio best-sellers, con cui vinse il “Premio Bancarella” nel 1969. Di Marcahuasi si è occupato anche il noto programma di Rai2 “Voyager” di Roberto Giacobbo nella puntata, se non ricordo male, del 27 febbraio 2012.
Secondo l’archeologia ufficiale, invece, le cosiddette “sculture” sarebbero del tutto naturali. Quanto alle rovine preincaiche, l’archeologo Julio César Tello (1880–1947), uno dei più grandi archeologi peruviani, le ha attribuite alla cosiddetta “Cultura Wanca” o “Huanca” (ovvero una popolazione nativa americana preincaica dedita all’agricoltura ed alla fabbricazione della ceramica, che parlava la lingua Quechua e che venne sottomessa dagli Inca nel XIV secolo) e non certamente ad Atlantide.
D’altronde simili opere d’arte della natura non sono così infrequenti.
In Italia, famosissima e visitata ogni anno da migliaia di turisti è il granitico promontorio di 122 metri modellato dagli agenti atmosferici a forma di orso (da cui il nome Capo d’Orso), presso Palau in Sardegna.
In Sicilia sono incredibili i “Megaliti dell’Argimusco”, non lontano da Montalbano Elicona (borgo in provincia di Messina, considerato tra i più belli d’Italia), tutti prodotti dall’erosione eolica. Quello più celebre ed affascinante è sicuramente il megalito che rappresenta un Aquila con le ali aperte e la testa rivolta a sud, verso l’Etna. Poco più a nord dell’Aquila si incontra la cosiddetta “Grande Rupe”. La roccia più grande e maestosa dell’intero complesso megalitico che, se osservata da sud, sembra il profilo di un uomo soprannominato “il Siculo”. Sotto la “Grande Rupe” si ammira “l’Orante”, figura che volge lo sguardo verso nord, ovvero verso il Mar Tirreno e le isole Eolie. Poco distante, sulla cosiddetta “Rupe dell’Acqua”, si distingue nettamente l’elegante profilo di una figura femminile con le mani giunte. Questa “scultura”, chiamata “la Vergine” è alta oltre 25 metri. (QUI)
In Calabria esistono diversi monoliti naturali dalle bizzarre forme che secondo alcuni sarebbero (come nel caso del sito andino) opera di una antichissima Civiltà scomparsa. Ad esempio la cosiddetta “Sfinge di Pietra Cappa” (si veda QUI) oppure l’”Elefante preistorico” visibile sulla Sila Grande, nei pressi della Fossiata a Campana (CS) (si vedano, in proposito, i seguenti link: LINK 1 , LINK 2 e LINK 3). Ma visto che a Ceccano si parla del “Vichingo”, rechiamoci molto più a nord della nostre isole mediterranee e raggiungiamo le latitudini che furono la patria di origine degli spietati ma coraggiosi ed avventurosi “Uomini del Nord”. Sbarchiamo in un’isoletta in mezzo al Mar Baltico; l’isola di Fåro, a settentrione della più grande isola di Gotland (da cui è separata dallo stretto di Fårosund), entrambe appartenenti alla Svezia.
Ho fatto cenno di questa isoletta nel libro (scritto nel 2013 assieme a Fabio Consolandi e Luca Pascucci) “Gotland. Alle origine del Labirinto”, in quanto vi si trova un antico labirinto di pietre, che da quelle parti viene chiamato “Trojaborg”.
Il manufatto è situato nella località di Holmudden, sulla punta più nordorientale della piccola isola ai margini di una splendida pineta (che ospita alcuni esemplari di “alberi danzanti” o “striscianti” come la ancora più spettacolare e celeberrima “Foresta Incantata” compresa nel Parco Nazionale di “Kurshskaia Kosà”, nella piccola enclave baltica russa di Kaliningrad, l’antica Königsberg, al confine con la Lituania https://www.ilpuntosulmistero.it/la-foresta-incantata/😉 che digrada sulla spiaggia di sabbia bianca e ciottoli, a pochi metri dal faro (Fårofyr) costruito nel 1847.
Il labirinto è formato da 15 circonferenze, e secondo alcuni archeologi svedesi risalirebbe all’Età del Bronzo (1000 – 300 a.C.).
L’isoletta è un piccolo mondo caratterizzato dalla Natura incontaminata, capace anche nei moderni viaggiatori immagini ed emozioni ancestrali.
(a sx: spiaggia a Fåro, a dx G. Pavat e il faro di Holmudden – foto S. Palombo).
Fåro è raggiungibile per mezzo di un traghetto (gratuito sia per le persone che per gli autoveicoli) che in circa 15 minuti da Fårosund (la piccola cittadina portuale omonima dello stretto, posta sulla costa settentrionale di Gotland) compie il tragitto sino a Broa, l’attracco dell’isoletta.
A circa 5 chilometri a nord di Broa, lungo la strada principale, si incontra la medievale Fårokyrka, risalente, come il Fonte battesimale di pietra ivi conservato, al XIV secolo. Sempre all’interno della chiesa si possono ammirare alcuni ex-voto (XVII-XVIII secolo) dipinti su tavole lignee, che raffigurano soprattutto pescatori e cacciatori di foche scampati a fortunali o ad altri incidenti in mare.
Ma l’isola di Fåro è famosa soprattutto per alcuni caratteristici enormi faraglioni, chiamati Raukar, che ne punteggiano le coste.
I Raukar non sono esclusivi di Fåro. Ne esistono infatti anche su altre isole del Baltico; ad esempio lungo la costa nord-orientale di Gotland, nella Riserva Naturale (Naturreservat in svedese) della spiaggia di Malms-Kyllaj non lontano dalla cittadina di Slute. Ma non vi è dubbio alcuno che i più spettacolari siano, appunto, quelli di Fåro.
(nelle foto: alcuni Raukar della spiaggia di Malms-Kyllaj, a Gotland – foto G. Pavat)
Ho avuto modo di ammirarli (assieme a mia moglie Sonia ed agli altri componenti della Italian Baltic Expedition) durante il mio viaggio a Fåro nell’agosto del 2012. Sembrano davvero arcaiche sculture, simili ai “Moai” di Rapa Nui (l’Isola di Pasqua) dimenticate sulle spiagge e si comprende facilmente perché colpirono l’immaginazione degli antichi Faroesi, dando vita a leggende e dicerie.
Alcuni sembrano davvero volti e profili umani. Proprio come il “Vichingo” del sito megalitico di Ceccano scoperto da Roberto Adinolfi. A Fåro quello probabilmente più celebre si trova all’interno della Riserva Naturale (Naturreservat in svedese) di Langhammars.
(I Raukar a Langhammars, a Fåro – foto Pavat)
Si tratta del cosiddetto “Uomo che guarda”, un gigantesco faraglione che si innalza a pochi metri dalla battigia, relitto di paleosuoli preistorici, che sembra davvero un volto umano che scruta pensieroso l’orizzonte marino.
La similitudine con il “Vichingo” di Ceccano è decisamente notevole.
Prendendo ad esempio proprio le leggende relative al monolite di Fåro ed agli altri Raukar (secondo questi miti locali i faraglioni non sarebbero altro che mostruosi giganti pietrificati dagli Asi, le divinità nordiche guidate da Odino e Thor), nulla vieta che i megaliti ceccanesi siano pure di origine naturale (è evidente il carsismo epigeo dell’intera area e dei rilievi circostanti alla cittadina ciociara) ma che abbiano colpito la fantasia e l’immaginazione degli antichi abitanti di quel territorio e che li abbino ritenuti manifestazioni di realtà preternaturali, soprannaturali, tanto da far ritenere sacro quel sito.
(Altri Raukar di Langhammars, a Fåro – foto Pavat)
Sebbene al momento non si abbia nozione di racconti e/o leggende afferenti l’area dei megaliti ceccanesi, non è detto che ciò non emerga nel proseguo delle ricerche (che stanno avendo nuovo impulso e linfa, proprio dall’onda di interesse suscitata in questi giorni). Soltanto studi e ricerche multidisciplinari potranno chiarire alcuni degli enigmi di quei megaliti. E se dovesse, infine, emergere con certezza che non solo sono opera della Natura ma che non vi fu alcuna forma di interazione o insediamento umano, quel “volto” di roccia continuerà lo stesso a far sognare e viaggiare la nostra fantasia.
(Giancarlo Pavat)
(nelle foto: altri Raukar della spiaggia di Malms-Kyllaj, a Gotland – foto Pavat)
Ciao a tutti, lo sapete che anche in Sardegna c’è una “Roccia dell’Elefante”? Si trova in provincia di Sassari, a Castelsardo e in realtà è una immensa tomba preistorica, una Domus de Janas. Ma il monolite ricorda un elefante con la proboscide sollevata.
Buon lavoro.
Laura
Buongiorno, vi segnalo che un altra Roccia dell’Elefante (chiamata “Elephant island”) si trova in Islanda. Ecco cosa ho trovato su internet;
“Uno scoglio’ a forma di elefante, situata sull’isola di Heimaey, nel sud ovest dell’Islanda. Una formazione rocciosa veramente impressionante, risultato del costante e lento lavoro della natura che nei secoli ha eroso la roccia affacciata sull’oceano dandole questa forma assolutamente unica nel suo genere, praticamente identica a quella di un grande elefante, animale decisamente poco comune in questo stato. Acqua e vento hanno eroso a poco a poco questa porzione di montagna in mezzo al mare, creando una enorme proboscide e le zampe di elefante ma anche un buco che sembra l’occhio dell’animale. La roccia è stata letteralmente scolpita dal moto ondoso e dalle microparticelle trasportate dal vento e il risultato è un gigantesco elefante che sembra intento ad abbeverarsi nelle acque di Heimaey. Una roccia scolpita che richiama decine di curiosi e turisti, che non vedono l’ora di ammirare da vicino e scattare una fotografia alla stupefacente Elephant Rock islandese”.
Penso che possa interessare.
Rino.
Buongiorno,
conosco la Roccia dell’elegante alle Tremiti ma quella è sicuramente una bizzarria naturale, mentre il “Vichingo” di Ceccano mi sembra artificiale. Come se ci sia la mano dell’Uomo. Ovvio che parlo solo per aver visto la foto ma mi piacerebbe vedere il sito dal vero. E’ possibile o è chiuso al pubblico?
Grazie.
Luciano
Buongiorno,
sono un docente universitario di Roma ed ho letto gli articoli sul sito dei presunti megaliti a Ceccano e sulla roccia che sembra raffigurare un volto umano. Vedendo le foto (ma sarebbe necessario un sopralluogo ) mi permetto di esprimere qualche dubbio sull’effettiva mano umana per quanto riguarda la disposizione dei megaliti. Leggo di un piccolo “menhir” che sembrerebbe spostato per creare un allineamento. Allineamento rispetto a cosa? Ad un monte, un lago, un fiume o qualche Costellazione? Se lo fosse rispetto ad un elemento naturale del territorio potrebbe anche essere plausibile, ma evitiamo di tirare in mezzo Costellazioni sullo stile della “Cintura di Orione”.
Quindi io studierei proprio quel piccolo “menhir”, mi accerterei se davvero è stato messo in opera dall’Uomo, e cercherei di traguardare punti notevoli del territorio. Se il sito è in mezzo ad un bosco come sembra dalle foto, può non essere semplice. Cercate di immaginare come poteva essere un tempo il sito in argomento. Studiate eventuali mappe catastali del territorio. Se lì non ci sono mai state coltivazioni ma solo boschivo o prativo, il sito sarebbe decisamente stimolante perchè potrebbe celare qualcosa nel sottosuolo. Vi ricordo che le ricerche di superficie sono permesse ma se dovesse emergere qualcosa di archeologico dovete avvertire immediatamente la competente Soprintendenza.
Buon lavoro.
Bruno.
Attenzione a dire subito che si tratta di “scherzi di Natura”. Da quello che leggo al roccia è calcare, quindi una pietra facilmente soggetta all’azione dell’erosione meteorica o eolica. Quindi potrebbe benissimo trattarsi di una scultura opera dell’Uomo (magari sfruttando un monolite già in situ) e poi consumata dal tempo e dagli agenti atmosferici. Ovviamente ciò significherebbe che è antichissima, certamente preromana, forse addirittura prevolsca (la popolazione italica che viveva nel territorio di Ceccano). Quindi cautela certamente ma nemmeno escludere aprioristicamente che si tratti id un manufatto.
Spero che comunicherete quando il sito sarà visitabile.
Grazie.
Bruno (Frosinone)
Sarebbe interessante vedere il luogo della scoperta dal vivo.
Dalle foto viste sul sito sembra essere uno scherzo della natura, anche se è allettante l’idea che una civiltà del passato possa aver modellato la pietra a mo di volto umano (un dio vichingo? un capo tribù?) così come gli altri monoliti.
Sicuramente tale situazione merita i dovuti approfondimenti vista la loro singolare sincronicità.
Complimenti all’autore della scoperta.
Ciao a tutti, sono veronica, bell’articolo. Mi sono sempre piaciute le rocce con figure antropomorfe e zoomorfe. Vi segnalo la Roccia dell’Elefante sull’isola di S. Domino nell’arcipelago pugliese delle Tremiti. la conoscete? E’ molto bella e suggestiva. raffigura un elefante intento ad abbeverarsi con al proboscide immersa nel mare.
Veronica.
Buongiorno, mi interessa molto questa nuova scoperta a Ceccano (FR). Sono un appassionato di megaliti ed antiche sculture nella roccia. Vorrei farvi notare che in Italia esiste un altro gigantesco “Volto” di pietra. Si trova a Borzone, comune di Borzonasca, nell’alta Valle Sturla, in Liguria. Qui di seguito vi allego uno studio su questa fantastica scultura tratto dal web a firma di Jonathan Ferroni .
“Il borgo (Borzone NDC), raccolto intorno ad un’abbazia del X secolo intitolata a S. Andrea, è poco più che un pugno di case. La strada, malagevole e stretta, si snoda per gli ameni dintorni tra boschi, torrenti e speroni di roccia. Ed è proprio una di quelle aspre rocce che ospita un grande tesoro della preistoria ligure. Si tratta di una colossale effige, scolpita nella dura pietra, che raffigura evidentemente i tratti di un volto umano. L’opera, alta più di sette metri e larga circa quattro, si staglia sopra la strada che collega con Borzone lo sperduto borgo di Zolezzi. L’effige, infatti, fu scoperta nel 1965 da un assessore della provincia di Genova, il quale si trovava in loco proprio per effettuare un sopralluogo della strada, allora in fase di costruzione. Il gigantesco volto presenta sicuramente i tratti fondamentali del viso umano: occhi, naso, mento, una sorta di busto e qualcosa sul lato destro che alcuni dicono essere capelli ma che, a mio parere, vuole rappresentare un orecchio. Dopo la “scoperta” del colosso, si venne a sapere che gli indigeni lo conoscevano già e che ci vedevano il volto di Cristo, la cui costruzione era attribuita ai monaci che un tempo abitavano l’abbazia di S. Andrea, in funzione di ex voto. A tutt’oggi, la scarsa segnaletica locale lo indica come “Volto di Cristo megalitico”. Tuttavia, visitando il sito, si comprende come quest’ipotesi sia infondata, sia per la posizione e per l’orientamento, sia per la tipologia di lavorazione dell’opera. La lavorazione è, infatti, molto primitiva e i tratti somatici sono resi solo rozzamente, scevri di particolari o caratteri individualizzanti. Anche la posizione del volto, non visibile da Borzone o dall’Abbazia e posizionato “di spalle” a entrambi, non fa certo pensare ad una pia opera di monaci. La conservazione del manufatto, infine, lascia pensare che esso sia veramente molto più antico di quanto la memoria orale cristianizzata ricordi. Alcuni studiosi, infatti, lo avrebbero datato al Paleolitico Superiore (20000 – 12000 a.C.), trovando una compatibilità con le tecniche di lavorazione di quell’epoca. L’ipotesi, assai affascinante, si sta facendo largo, pian piano, tra quei pochi che si sono interessati al Volto. Si tratta sicuramente di un’ipotesi fondata anche se, per ora, indimostrabile poiché, come al solito, l’archeologia ufficiale non si è minimamente interessata a condurre ricerche in questo senso. Un’opera di questo calibro trova al mondo soltanto due simili, uno in sicilia, a Petralia Sottana, dove sono state identificate titaniche sculture su pareti di roccia viva e l’altro agli antipodi, in Nuova Zelanda, chiamato Colosso di Whangape. Il Volto di Borzone è stato ricavato in uno sperone di roccia, sul lato nord, tramite l’asportazione di materiale. Il naso, il mento e l’orecchio, infatti, sono stati rappresentati in rilievo, eliminando il materiale intorno. Stessa cosa vale per l’occhio destro, mentre il sinistro appare in negativo, cioè concavo; l’effige appare priva di bocca. Sotto al mento si nota, invece, una prosecuzione della lavorazione, forse per rappresentare una sorta di busto o petto che, comunque, apparirebbe molto sproporzionato rispetto alla testa. Di fianco al mento, sulla sinistra, potrebbe esserci un altro nucleo iconico scolpito, che appare in rilievo, anche se è difficile comprendere cosa rappresenti e di che natura sia. Anche in basso, poco sotto il “busto”, potrebbe esserci una parte lavorata dall’uomo, che spicca per la sua convessità ma, anche in questo caso, è arduo ipotizzare un’interpretazione. Sulla sinistra dell’opera, invece, è possibile osservare un ampio distacco del blocco roccioso su cui essa è scolpita, rispetto alla roccia madre. Questo fenomeno ha dato origine ad una fessura che si collega con il retro, attraverso cui filtra la luce, che alcuni hanno interpretato come un tentativo di tridimensionalità o, almeno, di prosecuzione della scultura. Personalmente, non sono d’accordo con questa ipotesi in quanto il fenomeno appare del tutto naturale e, inoltre, la situazione geologica potrebbe essere stata ben diversa nel Paleolitico. Direi che si potrebbe dividere l’opera in diverse parti: 1. La linea del volto, che definisce il mento e arriva fino alle tempie, disperdendosi poi nella roccia grezza sopra gli occhi, delineando una ampia fronte 2. Gli occhi, di cui il sinistro in negativo e il destro in rilievo 3. Il naso e la linea delle sopracciglia 4. L’orecchio 5. Il “busto” o comunque la lavorazione sottostante il mento 6. La scolpitura alla sinistra del mento, di dubbia natura 7. La scolpitura sotto al “busto”, anch’essa di dubbia natura Si noti, inoltre, che il Volto è segnato da due vistose scanalature orizzontali, forse di origine erosiva, poste a sinistra del naso. L’azione erosiva frontale è evidente e, forse, potrebbe aver cancellato una lavorazione della bocca, originariamente esistente. È assai arduo dare una interpretazione all’effige, affermare se si tratti di un volto maschile o femminile. I tratti sono essenziali, manca qualsiasi segno di espressività e caratterizzazione. È stato supposto, come sempre, che si tratti del volto di una divinità, anche se tale ipotesi è del tutto opinabile. Potrebbe trattarsi di un volto apotropaico, come i tanti – di più ridotte dimensioni – che si possono osservare in molti borghi della Liguria. Potrebbe essere legato a funzioni funerarie, potrebbe essere molte altre cose. I termini di paragone mancano del tutto e gli studi sono ancora agli albori. In ogni caso, credo non sia illogico affermare che, verosimilmente, il Volto doveva essere visibile dal luogo di insediamento dei suoi creatori e forse il suo sguardo doveva vegliare proprio sulla comunità. Se questo è vero, allora l’accampamento paleolitico a cui appartenevano i creatori del Volto doveva trovarsi dove oggi si trovano gli abitati di Perlezzi e Sopralacroce. In ogni caso, la zona è ricca di grotte ed anfratti naturali ancora inesplorati che, forse, custodiscono tracce preziose del passato. Attualmente, il Volto è sconosciuto alla maggior parte delle persone. Ciò è dovuto all’assoluta mancanza di interesse da parte delle istituzioni locali a pubblicizzarne l’esistenza. A monte di questo, credo ci sia una mancanza di coscienza del patrimonio nostrano che, in questo modo, non viene riconosciuto e, quindi, valorizzato. Cosa piuttosto triste se pensiamo che il Volto Megalitico di Borzone è la più grande scultura rupestre d’Europa e, forse, del Mondo”.
Saluti.
Virgilio Vergerio.