UN CACATUA DALL’AUSTRALIA ALLA CORTE DI PALERMO DI FEDERICO II DI SVEVIA
di Giancarlo Pavat
È delle scorse settimane la notizia (certa, non è una fake news come avremo modo di verificare più avanti), proveniente dall’Australia, dell’incredibile identificazione di alcuni simpatici animaletti (tipici di quel continente) miniati su un opera del XIII secolo, che getta nuova luce sui rapporti commerciali e sulle nozioni geografiche di chi ci ha preceduto secoli e secoli fa.
Da tempo è ormai acclarato che le conoscenze scientifiche, geografiche e nautiche dell’Antichità e del Medio Evo erano certamente superiori a quello che normalmente ci vogliono far credere frusti manuali scolastici, la cultura accademica e il pensiero omologato e massificato dei media controllati da lobby di potere economico-finanziario. Ad esempio, che gli Antichi credessero che la Terra fosse piatta (quando già Pitagora nel VI secolo a.C. la definiva una sfera) lo pensano ormai solo coloro che continuano a fare di tutto per farcelo credere. È un idea, anzi una sorta di ideologia, dura a morire. Nata con l’Illuminismo (basti pensare alla locuzione “il buio Medio Evo”), continuata nell’Ottocento positivista soprattutto nel mondo anglosassone che, mediante l’Impero Britannico, dominava gran parte dell’orbe terracqueo. L’elenco di falsi miti e di spudorate menzogne, è decisamente lungo ma, fortunatamente, le continue scoperte avvenute in questi ultimi decenni stanno allargando le crepe formatesi in questo muro eretto dai “baroni e sacerdoti della Conoscenza” e, anche tra un pubblico più vasto, si sta, appunto, facendo strada la consapevolezza che le cose non stanno proprio come ce le hanno raccontate da tempo immemore. Il progresso dell’Umanità non è (e non lo è mai stato) rettilineo, costante e irreversibile. Periodi di grande progresso culturale, civile e scientifico si sono alternati ad altri di regressione e decadenza. La storia dell’Uomo è costellata da invenzioni e scoperte nei diversi campi dello scibile, successivamente “dimenticate” e in molti casi (ri)scoperte soltanto secoli se non millenni dopo. I motivi e le cause di tutto ciò sono di svariata natura. Da quella religiosa a quella economica; da quella politica a quella dovuta alla pura ignoranza e alla scarsa perspicacia. Comunque, si sa, sull’ignoranza si domina meglio!
Nata casualmente o deliberatamente, la favoletta che le antiche civiltà e i popoli primitivi (o ritenuti tali) non sapessero navigare su lunghe distanze e lontani dalle rassicuranti linee di costa continua ad aggirarsi come uno spettro senza pace, per gli istituti scolastici, aule accademiche, documentari televisivi e magazine di divulgazione scientifica a grande tiratura.
Eppure basterebbe andarsi a rileggere molti testi classici per rendersi conto che le cose non stanno così e che molte delle prove in tal senso le abbiamo sempre avute sotto gli occhi. Bastava saper leggere.
Ad esempio se chiediamo ai “Signori del pensiero mainstream” chi ha circumnavigato per primo il continente africano, questi risponderanno che il primato va al navigatore portoghese Vasco da Gama che, con il viaggio del 1497-1498, salpando da Lisbona raggiunse Calicut in India doppiando l’attuale Capo di Buona Speranza. Ed invece, qualunque studente di Ginnasio o Liceo che abbia studiato Erodoto di Alicarnasso (lo storiografo greco morto nel 430 a.C. e considerato il ”Padre della Storia”) potrebbe rispondere che l’aveva già tranquillamente fatto una flotta Fenicia su incarico del Faraone egizio Nekao II nel 600 a.C..
E che dire degli Antichi Romani? Elio Cadelo nel suo interessantissimo libro dall’esplicito titolo “Quando i Romani andavano in America” (Palombi editore 2009) ha ampiamente dimostrato come non fossero secondi a nessuno in fatto di tecnologie e cognizioni nautiche. Per non parlare di diversi rinvenimenti ”archeologici” (alcuni onestamente controversi). Ad esempio, come ho scritto nel mio libro “Nel Segno di Valcento” (Edizioni Belvedere 2010), “…. il ritrovamento nel 1886, sull’isola di Galveston, di fronte alle coste del Texas (Usa) dei resti di una imbarcazione che venne identificata come romana del IV secolo. Inoltre, sempre nella stessa area, sarebbero state rinvenute alcune monete anch’esse romane. Scoperte che non è possibile verificare in quanto oggi di questi reperti si sono perse le tracce”.
Ma, visto che non sono un ingegnere navale, bensì ho fatto studi umanistici, ecco il celeberrimo passo tradotto dal Latino della tragedia “Medea” di Seneca (grande scrittore, filosofo stoico e politico romano dell’Età degli Imperatori Giulio-Claudii);
“.. e tempo verrà che l’Oceano aprirà fin l’ultime barriere e scoperto oltre il mare s’offrirà un mondo nuovo, né più sarà Thule l’ultima terra”
E ancora Plutarco (scrittore, storiografo, filosofo greco vissuto sotto l’Impero Romano dal 46 al 127 d.C.) nel suo scritto “Il volto della Luna” (“De Facie in Orbe Lunae”) spiega che a “a cinque giornate di navigazione dalla Britannia verso Occidente ci sono alcune isole e dietro di loro un continente”.
Per non parlare di Diodoro Siculo (storico greco-siciliano vissuto tra il 90 e il 27 a.C.) che sembra conoscere molto bene ciò che si trova aldilà dell’Oceano;
“Poichè abbiamo discorso delle isole che stanno al di qua delle Colonne d’Eracle, passeremo ora in rassegna quelle che sono nell’Oceano… Infatti, di fronte alla Libia (Africa) sta un’isola di notevole grandezza, e posta com’è in mezzo all’Oceano è lontana dalla Libia molti giorni di navigazione, ed è situata a occidente. La sua è una terra che dà frutti, in buona parte montuosa, ma in non piccola parte pianeggiante e di bellezza straordinaria. Poiché vi scorrono fiumi navigabili, da essi è irrigata, e presenta molti parchi piantati con alberi di ogni varietà, ricchi di giardini attraversati da corsi d’acqua dolce. La zona montuosa presenta foreste fitte e grandi alberi da frutto di vario genere, e valli che invitano al soggiorno sui monti, e molte sorgenti. In generale, quest’isola è ben fornita di acque dolci correnti”.
Ma lasciamo da parte le citazioni dei testi classici e concediamoci una rapida carrellata su manufatti artistici romani in cui compaiono frutti che, stando ai dogmi del “Pensiero mainstream”, gli antichi Quiriti non avrebbero dovuto conoscere né, tantomeno, poter assaggiare.
Sulla copertina del libro di Elio Cadelo campeggia l’immagine di una statuetta romana del III secolo d.C., esposta al “Musèe d’Art et d’Histoire” di Ginevra in Svizzera. Il manufatto raffigura un fanciullo che stringe in mano quello che gli archeologi ortodossi hanno da sempre identificato come un grappolo d’uva. Ma se lo osserviamo bene non potrà non palesarsi la sua vera natura. Si tratta indubbiamente di un notissimo frutto “americano”, un ananas che il ragazzo regge per il caratteristico ciuffo.
Anche nella cosiddetta “Casa dell’Efebo“ a Pompei, in un affresco compare quello che ha tutta l’aria di essere un ananas offerto dal “Genio” familiare offre all’altare dei Lari della domus.
Ma se vi è rimasto qualche dubbio, allora recatevi presso il bellissimo Museo Archeologico Nazionale di Palazzo Massimo, poco distante dall’uscita della Stazione Termini a Roma. Salite al II° piano ed entrate nella Galleria dedicata ai mosaici ed agli affreschi. Aguzzate la vista, troverete un mosaico pavimentale datato a cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. proveniente dalla località Grotte Celoni a Roma. Vi è raffigurata una sorta di “Natura morta” ante litteram costituita da un cesto stracolmo di frutta. Vi si riconoscono un grappolo d’uva nera, delle melagrane, fichi, mele cotogne e….un’ananas.
Per non parlare delle innumerevoli raffigurazioni di quelle che sembrano oltre ad ogni ragionevole dubbio pannocchie. E si sa…. il mais sarebbe uno dei doni delle Americhe. Ho studiato personalmente uno di questi manufatti e ne ho parlato in un lungo articolo pubblicato sul numero 20 della rivista mensile “Fenix” (giugno 2010). Si tratta del bassorilievo (probabilmente medievale ma potrebbe anche trattarsi di materiale romano poi reimpiegato) che decora l’ingresso principale della chiesa di Santa Maria della Libera (sorta nel XII secolo circa, sui resti di un tempio romano di Ercole Liberatore nel sito dell’antica Aquinum, oggi in provincia di Frosinone) in cui diversi ricercatori (Coluzzi, Pellegrini ecc) hanno riconosciuto proprio delle pannocchie di mais.
Dai frutti e vegetali agli animali. Ed anche qui la lista sarebbe davvero ricca e varia, Ma per tornare all’inizio di questo articolo, ed approfondire le novità che arrivano dall’Australia, converrà concentrarci sui volatili e più precisamente sui pappagalli.
“Nella Basilica di Santa Croce di Gerusalemme, “Sanctae Crucis in Hierusalem”, a Roma, prima di accedere alla Cappella di Sant’Elena, si può ammirare la volta abbellita da un grandioso mosaico policromo, noto come “Gesù Benedicente attorniato dagli Evangelisti”, che riprende motivi paleocristiani.
La datazione e l’attribuzione dell’opera è ancora oggetto di dibattito tra gli storici dell’arte.
Ad esempio, sono stati fatti i nomi del Pinturicchio (1454-1513) e del Perugino (1450-1523). Secondo la maggioranza degli esperti, l’autore più plausibile sembrerebbe essere Melozzo da Forlì e l’anno il 1484. Se non fosse per alcuni piccoli particolari. Che ci fanno nel mosaico ananas, pannocchie di mais ed addirittura quello che sembra proprio un pappagallo amazzonico?” (da G. Pavat “Nel Segno di Valcento” – Edizioni belvedere 2010)
Siccome l’animale effigiato è indubbiamente e precisamente un “Ara scarlatta” o “Ara Macao”, il grande e variopinto pappagallo diffuso nella foresta dell’Amazzonia e in tutta l’America tropicale, e che il mosaico venne completato ben prima non solo della scoperta ufficiale del Brasile da parte dei Portoghesi ma addirittura del primo viaggio di Colombo, gli storici dell’arte, in evidente imbarazzo, hanno sentenziato che il volatile è stato sicuramente aggiunto dopo. Effettivamente nel primo decennio del XVI secolo Baldassarre Peruzzi (1481-1536) restaurò il mosaico di Melozzo (morto nel 1494). Ma non vi è alcuna prova che il Peruzzi abbia aggiunto qualche particolare e, soprattutto, che avesse visto dal vero o in effige un simile animale. Non è forse più logico pensare che in realtà tale variopinto e bellissimo volatile era già noto, se non altro nelle gerarchie ecclesiastiche (al Tempo depositarie della Cultura e della Conoscenza e nel caso del mosaico in questione committenti del Melozzo) semplicemente perché qualcuno c’era già stato, da molto tempo e svariate volte, nelle immense terre oltreoceano?
Ma non solo Americhe. Infatti è sempre un pappagallo ma non amazzonico bensì australiano quello che dall’Australia hanno annunciato di aver rinvenuto su un trattato del XIII secolo.
Ma procediamo con ordine. Nel 2014, la professoressa Heather Dalton della School of Historical and Philosophical Studies of University of Melbourne, pubblicò uno studio in cui dava notizia di aver scoperto in un opera di Andrea Mantegna, nota come “Madonna della Vittoria“ (commissionata da Francesco Gonzaga per l’omonima chiesa di Mantova, in segno di riconoscenza per la vittoria nella battaglia di Fornovo di Taro del 6 luglio 1495, sulle truppe francesi di Carlo VIII. Depredata da quel sanguinario vero e proprio flagello d’Italia e d’Europa che fu Napoleone Bonaparte e mai restituita dai sui degni compatrioti che continuano ad esporla al Louvre quando tutte le leggi internazionali sanciscono che le prede di guerra vanno restituite ai legittimi proprietari), nientemeno che un esemplare di un Cacatua. Ovvero il pappagallo bianco con la caratteristica cresta gialla, tipico dell’Australia e della Nuova Guinea. Già questa indubitabile scoperta (passata quasi sotto silenzio in Italia e in Europa) avrebbe dovuto far rivedere, come si diceva all’inizio, tutte le concezioni sulle conoscenze scientifiche e marinare del passato. È ovvio che il Mantegna (1431-1506) non è mai stato nei Mari del Sud ma è altrettanto ovvio che abbia potuto vedere una raffigurazione del volatile oppure un esemplare impagliato o addirittura vivo. Ma sui libri di scuola e sugli atlanti c’è scritto che a “scoprire” l’Australia fu nel 1770 il luogotenente e poi capitano della Royal Navy James Cook (1728-1779). In realtà le coste settentrionali dell’”Ultimo Continente” furono sicuramente avvistate già nel 1605 dal navigatore spagnolo Luìz Vaèz de Torres (1565-1610), Ma a sbarcare effettivamente per primi sarebbero stati l’anno dopo, gli olandesi guidati da Willem Janszoon (1570-1630). Controversi ritrovamenti archeologici avvenuti negli ultimi anni in Australia (come alcuni antichi graffiti aborigeni che apparentemente ritraggono navi in uso in Portogallo tra il XVI ed il XVII secolo), sembrerebbero dimostrare che in realtà in primi ad arrivarci sarebbero stati i Portoghesi tra la fine del XVI secolo ed i primi anni del secolo successivo. In ogni caso, a guardar bene le date, sempre molto dopo l’opera del Mantegna.
Ma se il Cacatoa nella “Madonna della Vittoria” può (e dovrebbe) far scalpore, figuriamoci cosa dovrebbe suscitare la nuova e recente scoperta annunciata dai media australiani. In pratica, tre studenti finlandesi; Pekka Niemelä dell’Università di Turku (l’antica capitale medievale della Finlandia), Jukka Salo zoologo responsabile del progetto sino-finnico per la conservazione del Panda Gigante e Simo Örmä dell’Istituto Finlandese di Roma, analizzando un antico testo medievale del XIII secolo, hanno identificato (e sottoposto a verifica alla Heather Dalton, che ha confermato il tutto) ben quattro raffigurazioni del Cacatoa. Ma il bello viene adesso. Infatti l’opera studiata dai tre intraprendenti finlandesi e dalla Dalton (la loro scoperta è stata pubblicata sulla rivista scientifica “Parergon Journal” 35/1 del giugno di quest’anno) è nientemeno che il DE ARTE VENANDI CUM AVIBUS, ovvero il capolavoro scritto dal mio personale mito; ovvero Federico II di Svevia (Iesi nelle Marche 1194 – Castelfiorentino in Puglia 1250), il “Puer Apuliae”, Re di Sicilia e Sacro Romano Imperatore, il quale, a quanto pare merita davvero (e sempre di più) il soprannome che gli diedero i contemporanei: “Stupor Mundi”.
L’opera è un trattato dedicato all’arte venatoria mediante la falconeria scritto dall’Imperatore negli anni 40 del XIII secolo e pubblicato per la prima volta dal figlio re Manfredi nel 1260. L’esemplare più famoso e ricco di illustrazioni miniate e su cui hanno fatto le loro ricerche i tre finlandesi e la Dalton è quello conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Cod. Pal. Lat. 1071), formato da 111 Fogli di pergamena (dimensioni 24,5×36 cm) che formano però solo i primi due libri dell’opera federiciana. Un’edizione più completa del Trattato è quella commissionata da un altro dei figli dello “Stupor Mundi”, Enzo re di Sardegna, durante la sua prigionia a Bologna. Nota con il Codice Lat. 717, consta di ben sei Libri ed è conservata nella Biblioteca Universitaria della città felsinea.
Dal Trattato emerge non solo la grande passione di Federico II per la falconeria ma la sua profonda cultura e conoscenza dell’avifauna del suo Tempo.
Andate a dare un’occhiata anche voi, e divertitevi a rintracciare i quattro Cacatua. È possibile farlo “sfogliando” digitalmente il manoscritto conservato in Vaticano al link https://digi.vatlib.it/view/MSS_Pal.lat.1071;
Ma quali conclusioni possiamo trarre dall’indiscutibile scoperta del “team” australiano-finnico? Federico II era arrivato sino in Australia o Nuova Guinea? Non esageriamo. In Oriente ci andò, durante l’incruenta “Crociata” del 1228/1229 (che siccome fu incruenta e riottenne Gerusalemme dal Sultano con un bel Trattato di Pace e non con sanguinosi massacri, gli costò la scomunica papale), ma solo fino in Siria e Palestina. E allora?
La spiegazione al quesito “che ci fanno quatto pappagalli australiani nel Trattato di Federico II” la troviamo proprio nell’opera stessa, come evidenziato dalla Dalton. Il “pappagallo bianco” (così veniva chiamato) era un dono inviatogli alla Corte di Palermo da parte del Sultano ayyubide d’Egitto al-Malik al-Kamil. La Dalton ha spiegato che si sapeva di questo “pappagallo bianco” dono a Federico II ma nessuno sapeva che erano sopravvissute immagini del volatile. E invece si trovavano proprio sotto gli occhi di tutti. Nell’opera dello stesso Imperatore.
Il quale, evidentemente ci teneva molto al dono. Sia perché era rimasto incuriosito dall’inconsueto animale, sia perché gli era giunto dal suo amico al-Kamil.
Lo “Stupor Mundi” dopo la stipula del Trattato di Pace del 11 febbraio 1229, era infatti diventato amico di al-Malik al-Kamil. E anche dopo la partenza dall’Oriente e il ritorno in Italia, Federico II manterrà una fitta corrispondenza (compreso lo scambio di pregiati doni) con il Sultano. Al contrario dei suoi contemporanei, Federico II non aveva preclusioni di ordine religioso (anche perché si riteneva superiore anche al papa ed alla Chiesa di Roma e voleva presentarsi ai sudditi come unico intermediario tra loro e Dio). Da giovane era vissuto nella Palermo multiculturale e multietnica lasciatagli da nonni normanni, conosceva l’arabo ed apprezzava la cultura e la scienza dei sapienti islamici. Assetato di novità per lui, l’impresa in Outremer non fu una spedizione bellica bensì un viaggio di scoperta e conoscenza. Pertanto si sarà chiesto da dove fosse saltato fuori un volatile tanto particolare come quel “pappagallo bianco”? Per rispondere bisognerebbe sapere quali fossero le conoscenze geografiche di Federico II.
Sopra e sotto: Cripta della Cattedrale di Palermo. Sarcofago di epoca sveva (secondo alcuni sarebbe normanno) con Croci Patenti e Croci Gigliate e due piccoli draghi con code serpentine attorcigliate e teste di lepre di cane. Si ignora a chi fosse destinato e chi vi sia stato inumato – Foto G Pavat 2017.
Difficile dirlo. Non lo sappiamo con certezza. Come cultura superava di gran lunga i suoi contemporanei. Giova ricordare che il nonno materno, il grande Ruggero II, aveva commissionato all’erudito e geografo arabo Muhammad el-Idrisi (1099-1165) una serie di carte geografiche e un enorme planisfero noto come “Tabula Rogeriana”, inciso su una lastra d’argento e andato perduto già nel XII secolo. Al mappamondo era allegato un vero e proprio trattato di geografia intitolato “Kitab nuzhat al-mushtaq fi ikhtiraq al-afaq” traducibile dall’arabo come “Il libro dei piacevoli viaggi in terre lontane”, meglio noto come “Libro di Ruggero”. Nel planisfero e nel Trattato, el-Idrisi riversò tutte le nozioni di geografia della sua epoca, facendone un opera unica e irripetibile. Federico II conosceva il Trattato dell’erudito originario di Ceuta e che aveva viaggiato per anni in lungo ed in largo per l’Orbe conosciuto? Certamente sì. Ed aveva sicuramente letto quei passi (che ancora oggi appassionano coloro che sono convinti o cercano riscontri, di contatti precolombiani tra i popoli del Mediterraneo e quelli Amerindi) in cui el-Idrisi parla di isole e terre oltre l’Oceano nebbioso (così lo definisce lui stesso) in cui vivevano popolazioni quasi glabre e dalla pelle rossa!
Quindi lo “Stupor Mundi” era conscio che il mondo non finiva tra le coste del Mediterraneo o nelle brumose distese del Nord dove aveva inviato i Cavalieri Teutonici la cui Casa Madre era rimasta però nell’assolata e dolce Puglia, ovvero a Barletta (dove, non a caso si farà seppellire Hermann von Salza, Gran Maestro dell’Ordine e amico e consigliere di Federico II).
Il problema è che nel Medio Evo, come nell’Antichità non esisteva il concetto di “scoperte geografiche” come fu inteso dagli Europei a partire del alla fine del XV secolo. Quindi, anche se si sapeva dell’esistenza di una vastissima terra aldilà degli oceani, Americhe o Australia che fossero, veniva considerata nient’altro che una propaggine dell’Asia, anzi delle Indie. È probabile che su molte antiche mappe (o copie di queste) siano riportate le coste del pacifico delle Americhe e forse dell’Australia ma che compaiano come penisole o isole “indiane”.
Pertanto, quando a Federico II, nella sua splendida Reggia siciliana, venne presentato il Cacatua, dono del suo regale amico al-Kamil, certamente gli venne detto che proveniva dalle lontane Indie, perché tali erano la Nuova Guinea o l’Australia. Non certamente da un continente sconosciuto posto ai nostri antipodi.
Quindi la scoperta dei cacatua nel DE ARTE VENANDI CUM AVIBUS non testimonia che nel Mediterraneo del XIII secolo (sia nella Corte federiciana che in quella islamica del Cairo di al-Kamil) conoscessero l’esistenza di quella che verrà chiamata Australia, ma dimostra inconfutabilmente quanto vaste e davvero globali fossero le reti commerciali dell’epoca, tanto da poter far arrivare un Cacatua VIVO dall’Australia o dalla Nuova Guinea sino alla rutilante, eterogenea, sfarzosa e coltissima Corte federiciana di Palermo.
(Giancarlo Pavat)
Gentilissimo Alessio, grazie per la segnalazione del link su Melozzo. Ma relativamente al pappagallo amazzonico, il link da per certo qualcosa che non lo è affatto. In realtà (come ho scritto nell’articolo) non vi è alcuna prova che l’Ara sia stato davvero dipinto il Peruzzi. Ovviamente l’attribuzione al Peruzzi e la spiegazione “ufficiale” da parte del Mondo accademico che continua a rifiutarsi di ammettere che l’America era nota ben prima dei viaggi di Cristoforo Colombo.
(Giancarlo Pavat)
Ho trovato questo link per quanto riguarda Melozzo da Forlì: https://l.facebook.com/l.php?u=http%3A%2F%2Fwww.romainteractive.com%2Fita%2Frinascimento%2Frinascimento-romano%2Fpiu-melozzo-da-forli.html%3Ffbclid%3DIwAR3Z2ahzUY6pdXEXAUiSIG3MPRNQ_jIuAJvcZobv8MS4Xvd38dnkEcTD1cs&h=AT1IFKImIbs7vSB24ZvelzKPkwfBnKt8Jd5SjYjyO2T78WJaxxtulCb2yBt1MidmbOT6PZgbo1NCZXk5qu4pAH6Dup-Yg_Z2oYbfkbUY8WUPT4s_WJVhcGesEt8xwWFU338mn2GyvgTUHbQI
articolo davvero molto interessante. bravo
un articolo molto bello, complimenti
Bellissimo lavoro e complimenti ancora Gentilissimo Sig. Giancarlo Pavat. Certamente nel percorso della storia umana vi sono stati periodi alterni tra progressi e regressi: altrimenti non si spiegherebbe il perché di centinaia se non migliaia di reperti e testimonianze “anomali” rinvenuti in epoche diverse. Che gli antichi popoli esempio come i Greci, avessero conoscenze strabilianti sul pianeta “Terra” non vi sono dubbi. Nella mia ricerca personale ho constatato che l’antico teatro dello “Jato” in Sicilia, oltre ad essere stato costruito uguale come quello di Dionisio ad Atene, entrambi si trovano, esattamente senza scarto di metri, sulla stessa longitudine terrestre: non può essere una fatalità. Deduco quindi che conoscevano perfettamente geograficamente e geometricamente la sfericità globale. Vito Giorgio Zuccaro.
Molto interessante. È bene che ci sia anche chi fa critica, ragionata, come la fate voi, alla storiografia cd ufficiale.
Ottimo saggio anticonformista. Cari saluti.