Immagine di apertura; Panorama di Opi (AQ)
LA STORIA DIMENTICATA DI OPI,
L’INIZIO DI “UN MONDO A PARTE”
di Guglielmo Viti
“Quanto ai Sanniti viene riportata anche una tradizione secondo la quale i Sabini, da molto tempo in guerra contro gli Umbri, fecero voto, come fanno alcune popolazioni greche, di consacrare ciò che sarebbe nato in quell’anno. Dopo la vittoria infatti immolarono parte degli animali nati e consacrarono il resto. Sopraggiunta però una carestia, qualcuno disse che occorreva consacrare anche i figli. Essi lo fecero, votarono a Marte i figli nati in quel periodo. Quando questi furono adulti li inviarono a fondare una colonia. Li guidava un toro, che si fermò nella terra degli Opici, i quali vivevano in villaggi. Espulsero allora gli abitanti del luogo e vi si insediarono stabilmente. Secondo il responso degli indovini, sacrificarono il toro a Marte che lo aveva dato come guida. Probabilmente per questo motivo ricevettero anche il nome di Sabelli, diminutivo di quello dei loro padri.”
Così, con questo racconto di Strabone (V,4,12), possiamo far iniziare la storia di Opi.
2. Immagine sopra; cartina con il territorio di Roma e degli altri popoli Italici attorno al III secolo a.C..
Opi è un piccolo paese nel Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise nel territorio dei Sanniti ed ha una interessante ed antichissima storia che parte da molto lontano. Strabone accenna al fatto che nel territorio che sarà colonizzato dai Sanniti esisteva già una popolazione chiamata Opici.
Tutta la storia della nostra penisola è caratterizzata da un susseguirsi di popoli, culture, civiltà che si alternano qualche volta con un’assimilazione lunga e pacifica, altre volte con una sostituzione violenta.
Non sappiamo come fu la storia della colonizzazione del territorio degli Opici anche perché non abbiamo nessuna testimonianza della loro cultura per poter determinare se ci fu assimilazione o rottura violenta possiamo solo immaginare che vi sia nella denominazione del paese un antico ricordo di quel precedente insediamento così come possiamo ipotizzare che anche il nome dell’antichissima divinità sannita Ops ricordi nella radice del nome quel mitico popolo.
Sull’origine presannitica del culto alla dea Ops ricordo che:
“La divinità femminile dal nome Ops fa parte del vasto patrimonio della religiosità italica introdotto a Roma dai re sabini; a Tito Tazio ( il primo a regnare insieme a Romolo) in particolare, si faceva risalire la fondazione di un altare a lei dedicato. Non vi sono motivi per dubitare dell’origine sabina di Ops e la presenza del culto nel santuario di Pietrabbondante sembra poterla confermare.” (A. La Regina).
La possibilità che questa dea fosse già venerata in periodi più antichi in una popolazione preesistente ai Sabini come gli Opici con un richiamo forte nella determinazione del nome non è, quindi, remota ed anzi estremamente plausibile.
Siamo intorno al IX sec. a.C. e, sempre seguendo il racconto di Strabone, dalla Sabina un gruppo di giovani che prenderanno il nome di Safini ( da Sabini) che verrà cambiato in seguito in Sanniti, viene inviato, come sacrificio nella cerimonia della “Primavera Sacra”, il Ver Sacrum, a formare una nuova colonia.
A guidarli è un toro, animale sacro a Marte, che diventerà il simbolo stesso della nazione sannita.
I vari gruppi che si andavano piano piano stanziando in varie zone dell’Abruzzo formati da clan familiari hanno dato inizio ai vari cosiddetti “popoli” sanniti ovvero: Frentani, Lucani, Carnicini, Peligni, Marsi, Safini/Sanniti, Pentri.
3. Immagine sopra; Cartina con la distribuzione delle Genti Italiche nell’Abruzzo meridionale.
In realtà non esistono profonde differenze culturali fra i vari raggruppamenti anche se alcuni si distingueranno per una maggiore estensione territoriale, una maggiore ricchezza ed una maggiore forza militare come i Marsi.
Si è sempre ritenuto che la zona dell’alta valle del Sangro fosse dominata dai Marsi. Il Sangro è stato sempre il teatro di scambi economici e culturali importanti nel territorio abruzzese infatti dopo essere nato dalle pendici del monte Turchio arriva al Mar Adriatico collegando la costa con le aree più interne.
L’idea della dominazione dei Marsi nella zona dell’alta valle del Sangro si era andata formando in base alla convinzione che vicino ad Opi esistesse la città marsa di Milonia, convinzione suffragata dal ritrovamento di un’iscrizione dedicatoria a Veruna Erinia attribuita ai Marsi per i caratteri linguistici.
In realtà è ormai assodata l’identificazione di Milonia con l’attuale Ortona presso cui fu trovata realmente l’iscrizione.
Le genti dell’alta valle del Sangro hanno conservato la denominazione originale di Safini (Adriano La Regina) come si evince da iscrizioni risalenti al II secolo a.C. e dalle monete emesse all’epoca della guerra sociale.
Nella Val Fondillo ad Opi sono state studiate varie aree di una vasta necropoli safina del VI secolo a.C. che si caratterizzano per la disposizione delle tombe quasi circolare, più a ferro di cavallo, e per non sovrapporsi mai, oltre a lasciare uno spazio centrale libero forse per le offerte.
4. Immagine sopra; Museo della Civiltà Safina a Colleciglio, via Palombara Nuova 67030 Barrea (AQ).
Da questo si desume una caratteristica “culturale” in quanto si presume che queste tombe fossero distinguibili grazie ad un cumulo sovrastante di ciottoli mentre l’olla che fuoriusciva dal terreno e che fungeva da ripostiglio, prerogativa quasi esclusiva di queste sepolture, non era un segnacolo, ma, ricoperto da ciotole e da lastre serviva per i rituali di deposizione con l’immissione di cibi e bevande per il morto.
5. Immagine sopra; Tombe della necropoli di Colleciglio a Barrea (AQ).
Questi raggruppamenti circolari indicavano un vero e proprio monumento collettivo con tanto di definizione attraverso un canale o un fosso in cui, forse, venivano infisse staccionate di confine.
Queste sepolture, comuni anche nelle necropoli di Alfedena, erano delimitate nel perimetro da ciottoli che costituivano il contenitore di una bassa struttura a tumulo
In Val Fondillo si è conservato straordinariamente un autentico tumulo che presenta nella disposizione delle sepolture una precisa progettazione.
Al centro del tumulo si trovava la tomba di un adulto maschio, molto danneggiata dalle arature, che conservava ancora al livello della cinta con il pugnale, i resti di un sacchetto contenente una conchiglia e tre unghie d’orso (uno sciamano?).
L’area cimiteriale di Opi parte dal VII secolo a.C. ed arriva fino al IV secolo. a.C..
Le tombe più antiche (VII-VI secolo a.C.) sono riconoscibili grazie a segnacoli costituiti da lastre sbozzate più o meno in forma di parallelepipedi infissi verticalmente; quelle più recenti (V-IV secolo) sono invece distribuite per file parallele e perpendicolari che formano dei rettangoli disposti quasi in continuità rispetto ai raggruppamenti anulari realizzati tra il VII ed il VI secolo a.C..
Un nuovo modo di seppellire che ad Opi si distingue per una continuità senza mai sovrapporsi, come in altre necropoli sannite. Un cambiamento che riflette forti mutamenti sociali, socio-politici caratteristici di quel V secolo che vede la fine delle società arcaiche e la nascita degli “stati tribali”. Altro aspetto interessante della necropoli di Opi, che, sembra, determini una unicità insieme alla olla emergente per le offerte, è l’originale rispetto e devozione che veniva riservata ai bambini morti sia appena nati sia in età adolescenziale.
E’ curioso vedere come le sepolture di neonati o adolescenti siano venerate con corredi, anche se miniaturizzati, identici agli adulti e siano, generalmente, poste accanto se non insieme ai genitori. Le morti premature, purtroppo erano frequenti sia per le malattie, infezioni, sia, e questo determinava anche scarsità di difese immunitarie, per denutrizione. Non esistono altri popoli che vogliono conservare e rispettare il ricordo di fanciulli morti prematuramente come gli antichi abitanti di Opi. Se è vero che “muore giovane chi è caro agli dei”, mai testimonianze archeologiche furono più esplicite nel raccontare quanto furono cari anche agli uomini.
Altro carattere peculiare delle tombe infantili di Opi sta nel fatto che non si riesce a distinguere il sesso dei defunti. La difficoltà indica come non si desse importanza al sesso, determinando l’idea di un ruolo diverso della donna nella società safina almeno di Opi.
Recenti scavi archeologici in località San Rocco hanno “rivelato una complessità e un’articolazione di fasi d’uso e di frequentazione che ne fanno il sito a più lunga continuità di vita, allo stato attuale delle ricerche, tra quelli conosciuti dell’Alto Sangro. A grandi linee i momenti principali sono tre; la fase protostorica, testimoniata da strutture con vespai in pietra e frammenti d’impasto; dopo l’abbandono del “villaggio” trasformazione del sito in area funeraria in coincidenza temporale con la vicina necropoli arcaica (VII-VI sec. a.C.) di Val Fondillo; dal III secolo a.C. fino forse alla prima età imperiale, impianto e vita di una villa vasta e articolata, segno della nuova strutturazione territoriale conseguente la romanizzazione” (P. Riccitelli).
Questa continuità dimostra una permanenza dello stesso gruppo etnico che si era stanziato nel VII secolo nel territorio.
I reperti archeologici confermano quei contatti con il mondo italico meridionale attraverso le valli rappresentati da buccheri e fibule a ghiande.
Questa evoluzione potrebbe essere in qualche modo collegata alla necessità di riconoscersi attraverso nuovi “Marker” immediatamente evidenti: finita, cioè, la società verticistica, la nuova compagine sociale ha enfatizzato i (pochi) dischi-corazza, come elemento distintivo del costume e del ruolo non solo militare.
Ad Opi le indagini hanno riportato alla luce due deposizioni bisome in tombe rispettivamente a fossa (26) ed a cassone (22) contenenti ciascuna due individui di sesso maschile.
Esiste ad Opi una commistione di elementi tipici dei corredi infantili di area sangritana come il “torques” e gli oggetti miniaturizzati e di quelli dei maschi adulti come le armi, tra le quali si segnala una coppia di dischi-corazza non indossati.
Come è stato evidenziato una simile combinazione associata all’età giovanile dell’inumato, evoca l’immagine di un gruppo sociale nel quale antichi rituali ed i relativi simboli venivano trasmessi di padre in figlio, un’ereditarietà dei ruoli.
Nell’alta valle del Sangro si delinea un’area omogenea, una “Koinè dell’Alto Sangro” in cui i rituali della morte, inumati supini distesi in fosse costruite in base al materiale disponibile in loco, tipi di oggetti deposti e loro disposizione, reciproche disposizioni delle sepolture, sono assai simili, e lo stesso può dirsi delle armi che presuppongono dunque analoghi modi di combattere ovvero di rappresentarsi.
La Tomba 8 di Opi si distingue perché in questo caso l’inumato è stato sepolto con le “manicae” in lamina di bronzo.
Ciò che cambia sono invece gli elementi di tipo sovrastrutturale come i motivi decorativi degli oggetti e soprattutto gli ornamenti femminili che sembrano più legati a mode locali: pensiamo per esempio alle Chatelaines in bronzo dell’Alto Sangro e agli anelloni di bronzo, forse fibbie decorative di cinture.
Ad Opi sono state trovate due teste di mazze, rarissime, che sembrano far parte più di utensili religiosi che armi e che sono associati ad un coltello in ferro ed un pugnale, associazione che ricorda l’attributo degli indovini e sacerdoti.
In questo vasto panorama di popoli dell’Italia antica, ancora molto poco conosciuti, alcuni elementi emersi dai recenti scavi archeologici affiorano caratteristiche culturali originali e straordinarie. In particolare per quanto riguarda la Koinè dell’alto Sangro con i comuni di Opi, Villetta Barrea, Civitella Alfedena, Alfedena possiamo ricostruire due fasi relative ai primi insediamenti stabili risalenti intorno al VII-VI secolo.
A Opi i tipi di sepoltura che abbiamo già esaminato che si susseguono nel tempo senza alcuna interruzione delineando uno sviluppo storico continuativo, di trasformazione graduale senza sconvolgimenti traumatici raccontano una storia evolutiva molto interessante.
Il primo nucleo che vede nella sepoltura tipo “a tumulo” la predominanza di un individuo “capo” di un clan familiare che si distingue sia per il tipo di corredo sia per la collocazione ci indica che per almeno due secoli vige un sistema sociale verticistico in cui il potere, certamente politico – religioso unico, viene tramandato automaticamente di padre in figlio.
A questo tipo di organizzazione sociale legata più a ruoli politico-militare-religioso con pochi agganci al tipo di economia, non ancora stabilizzatasi, si sostituisce nel V secolo una comunità in cui non spiccano ruoli di particolare prestigio, anche se le differenziazioni sociali non sono assenti. Esistono nuclei familiari organizzati con legami di tipo “clanico”.
Questa nuova organizzazione che si evidenzia dal tipo di sepoltura, omogenea e disposta a gruppi con segnacoli e “confini” che fanno pensare a divisioni identificative di gruppi precisi, si lega alla nuova economia basata soprattutto sull’allevamento e la pastorizia. Le famiglie seppelliscono i propri figli anche in tenerissima età con il loro corredo, più o meno ricco a seconda dello status sociale, composto anche di oggetti in miniatura con la precisa volontà di indicare quale ruolo avrebbe ricoperto se non fosse morto prematuramente affidandolo con la sua carica agli dei.
La caratteristica poi, propria delle necropoli di Opi, di inserire nelle tombe un’olla con la bocca che emerge dal terreno, destinata alle offerte per il defunto, indica quanto fosse forte e continuo il contatto fra il mondo dei vivi e quello dei morti.
6. Immagine sopra; ricostruzione di una tomba della Necropoli di Opi.
Le necropoli dei Safini, abitanti delle città dell’alto Sangro, si trovavano, naturalmente, come tutte le necropoli dell’antichità al di fuori del centro urbano ma erano situate lungo le vie di transito in modo che gli antenati, nei loro sacelli ben visibili, accompagnassero e difendessero sempre i loro discendenti.
Le abitazioni, invece, erano poste in luoghi alti e ben difendibili. Quello che maggiormente ci colpisce nel profondo quando esaminiamo le tombe della necropoli di Opi, come anche quelle delle città limitrofe, è la cura con cui vengono seppelliti i bambini anche neonati, ne abbiamo già scritto in precedenza.
A questi fanciulli che non si erano ancora affacciati nel mondo degli adulti veniva riservato un posto importante come quello dei loro padri nel cerchio familiare delle tombe.
Un popolo di guerrieri, con una economia povera che non consentiva importanti scambi commerciali al di fuori del loro territorio, aveva nella cura dei loro piccoli la stessa attenzione fossero maschi o femmine. Dai corredi spesso non riusciamo a capire il sesso del bimbo morto e questo può essere anche un indizio importante sul ruolo della donna nella società safina ad Opi e dintorni.
Proprio ad Opi è bastato ad un bimbo arrivare ad 11 anni per essere sepolto con un corredo degno di un principe.
Nella tomba 48 il giovane defunto aveva un disco-corazza e pugnali ed ornamenti che certamente non aveva mai usato né indossato ma che erano pronti per lui se fosse rimasto in vita.
Il giovane sarebbe stato un capo ed allora era importante riconoscerlo e sapere che lo sarebbe continuato ad essere anche nel regno degli dei a protezione della sua gente.
Esiste una descrizione di Opi da parte di un anonimo datata 1711 che possiamo tranquillamente trasportare nel tempo ed applicare all’Opi del VI secolo a.C.:
“Il monte è dappertutto nudo di modo che rende il luogo così forte dalla natura, che solo dieci uomini possono ripararsi da eserciti interi et è quasi un miglio di altezza ; et essendo il luogo esposto a tutte le regioni e bersagliato da tutti gli eventi a segno tale che l’inverno è così orrido per il freddo e neve grande che vi casca e ghiacci, che gli poveri abitanti per così dire non possono mai uscire dalle case ne scostarsi dal fuoco. All’incontro è così delizioso e dilettevole l’estate con un’aria così soave e temperata che vi potrebbe villeggiare e deliziare qualsiasi personaggio ….Tutta la sua campagna, nella quale, verso occidente, a piè del monte, al piano, con bella simmetria, ogni cittadino vi ha la sua stalla di fabbrica per tenere gli animali d’inverno, che formano come un’altra terra… La campagna è sterile, producendo solo frutti selvaggi e glianne in quantità, nelle quali vi si trova ancora qualche cinghiale; e quel poco che si coltiva produce assai grano e qualche legume, il resto sono pascoli ottimi per gli animali l’estate…”.
Un’economia povera legata allo sfruttamento dei pochi terreni prativi e seminativi, si arrivava a terrazzare le pendici di alti monti come il Marsicano ed il Monte Amaro per ricavarne strisce di terra coltivabile che, anche se misere, erano indispensabili alla sopravvivenza familiare. L’attività economica prevalente nel XVIII sec. era l’agricoltura e l’allevamento a cui si dedicava quasi il 70% delle famiglie.
Naturalmente era importantissima la pastorizia.
“… E v’è un’entrata con bella piazza a modo di un anfiteatro. In mezzo del luogo v’è la chiesa parrocchiale sotto il titolo di Santa Maria Assunta…” (0p.cit).
E se veramente in epoca arcaica ci fosse stato un anfiteatro?
Il luogo si presta, la conformazione lo suggerisce così come la presenza stessa di una chiesa che potrebbe essere sorta in un luogo già sacro lo confermerebbe.
Non sarebbe nè il primo né l’unico esempio di un complesso che unisce un edificio sacro, un tempio o un’area, con un teatro; di questi complessi di origine sannita ne abbiamo esempi in Campania con il teatro e tempio di San Nicola a Pietravairano.
Ma, soprattutto, viene immediatamente alla mente il santuario italico ed il teatro di Pietrabbondante, celeberrimo complesso edilizio sannita, oltretutto con un tempio alla dea Ops che sovrasta il teatro.
Che in Opi esistesse, in forma ridotta, un complesso simile?
Esempi nel mondo antico italico sono numerosissimi: Teano, Gabii, Tivoli, Palestrina ecc…
7. Immagine sopra; la famosa lapide del “Sacerdos Cerialis” murata sul campanile della chiesa madre di Santa Maria Assunta.
La lapide “Sacerdos Cerialis” murata sul campanile nei pressi del luogo dove fu trovata, suggerirebbe proprio questo: l’esistenza di un tempio dove esisteva un luogo, indicato dalla targa, in cui l’offerente portava i suoi doni preziosissimi, i cereali, per ricevere aiuto o guarigione o ringraziare la divinità, forse Cerere.
Sulla rocca di Opi esisteva probabilmente solo questo tipo di edifici consistenti in un tempio e un teatro con le abitazioni di sacerdoti e sacerdotesse fungendo, ove ce ne fosse stato bisogno, da riparo per le popolazioni contro gli assalti di nemici. Infatti, come abbiamo detto, il luogo si prestava ad essere, anche nei secoli successivi, naturalmente inespugnabile.
Spesso diamo per scontato notizie, opinioni, deduzioni, fatti che derivano dalla interpretazione di testi di cui si tramanda il contenuto anche se la lettura è errata.
Così è capitato per una celebre lapide anagnina che attribuiva il restauro delle terme romane, fatte risalire per questo al I secolo a.C., al generale Fabio Valente, famoso generale e collaboratore di Nerone, mentre la dedica era ad un console meno noto di nome Fabio Vitale, con una notevole differenza cronologica per la datazione del restauro delle terme.
Ad Opi, cittadina abruzzese, divenuta celebre recentemente per essere stata il set del bel film “Un mondo a parte”, esiste una lapide murata sul campanile della chiesa madre di Santa Maria Assunta che recita esattamente:
SACERDOS CERIALIS
ovvero
SACERDOTE DEI CEREALI.
Se andate a consultare qualsiasi guida che ne parli troverete come testo riportato:
Sacerdos Cereris
o
Sacerdos Cereis,
ambedue errate, con la traduzione “Sacerdote di Cerere”.
Senza che vi sia una spiegazione logica questa lettura ed interpretazione attribuisce la lapide ad un tempio dedicato alla dea Cerere, ad un suo culto, già fin da tempi remoti.
Ma abbiamo evidenziato che sulla lapide sta scritto Sacerdos Cerialis che tradotto significa Sacerdote dei Cereali ed allora andiamo a cercare nella storia l’esistenza e la funzione di questo sacerdote.
Debbo premettere che per quanto di mia conoscenza, non essendo un epigrafista, non esistono altre lapidi con questa dicitura, è un unicum, ma sappiamo di numerose lapidi dedicatorie che riportano come carica il MAGISTER CERIALIUM URBANORUM.
Riporto come esempio la lapide trovata in località Salvotta a Vasto che riporta:
“HERCULI EX VOTO ARAM/L.SCANTIUS L. LIB.MODESTUS VI VIR/AUG.MAG.LARUM AUGUST.MAG/CERIALIUM URBANORUM L.D.D.D./III KL SEPTBRI”,
ovvero,
“Lucio Scanzio Modesto, liberto di Lucio Sexmviro Augustale, capo dei Lari Augustali e Capo dei Cereali Urbani, elevò ad Ercole, in soddisfazione di voto, in luogo a lui dato per decreto dei Decurioni”.
La quasi totalità di queste lapidi sono concentrate nel Sannio e sono conseguenza della riforma territoriale ed amministrativa della penisola fatta da Augusto.
Con questa riforma fu creata, appunto la carica di Magister Cerialium Urbanorum ovvero del Magistrato dei cereali dei cittadini, cioè di coloro che vivevano entro le mura della città e non del contado, la classe abbiente.
Questi magistrati subentravano ai preesistenti sacerdoti che rimangono come sottoposti facenti parte di un collegio ad hoc creato.
Tali sacerdoti erano addetti al culto di Cerere ma, originariamente, prima di Augusto, come stavano le cose?
Ritengo che l’esistenza del sacerdote di Cerere, Sacerdos Cereris, non escludeva l’esistenza dei sacerdoti dei cereali, Sacerdos Cerialis, visto che hanno denominazioni diverse ed incarichi specifici diversi.
Ma quale funzione e ruolo avevano questi antichi sacerdoti dei cereali?
Non abbiamo notizie in merito ma sappiamo che la più antica testimonianza sulla loro esistenza ci viene dalla Bibbia (Le 23:15-17) dove si narra che esistevano sacerdoti, detti dei cereali, che avevano come dovere quello di offrire offerte a Dio con dei pani che venivano ritualmente mangiati dall’officiante in luoghi del tempio destinati a questo.
Ma esiste una testimonianza ancor più antica legata al mondo egizio.
Fra gli Egiziani esistevano dei sacerdoti dei cereali che, così come gli Ebrei, offrivano il pane agli dei. Del resto è noto il legame storico-culturale fra i due popoli.
Tornando ad Opi è indubbio che nella terra dei Sanniti il grano, l’orzo, il farro erano beni preziosi vista la natura del territorio e l’esistenza di un celebrante che si dedicasse a questo tipo di offerta è più che giustificata.
Escluderei che questa lapide fosse stata fatta come dedica ad un personaggio specifico mentre ritengo più appropriato un uso come targa fatta per indicare un luogo di competenza per quel tipo di carica sacerdotale. Una sorta di insegna dove i fedeli potevano consegnare i loro preziosi doni. Certo è che il sacerdote operasse presso un tempio che facilmente era dedicato prima ad una divinità locale come la dea Ops, assorbita poi nel Pantheon romano, diventata Demetra e poi Cerere.
Sia Ops che Cerere sono divinità legate ai prodotti della terra, dell’abbondanza e, quindi, ai preziosi frutti che essa genera, mentre Demetra era anche legata al mondo sotterraneo, degli inferi.
Sembra allora che tutto torni: ad Opi sannita esisteva un tempio in cui un sacerdote, con la carica di Sacerdote dei cereali, riceveva in un luogo specifico i cereali come offerta alla divinità e questo luogo era indicato dalla lapide murata sul campanile.
Ma non è finita così, dall’esame delle lettere incise ci accorgiamo di un particolare importante: la lettera A ha la traversa spezzata con la punta in basso.
La grafia di questa lettera ci porta all’epoca dell’imperatore Costantino (274-337), a quel IV secolo d.C. che vede l’autorizzazione alla diffusione del cristianesimo nell’impero.
Bisogna considerare che come in tutte la rivoluzioni, politiche, economiche, sociali o religiose c’è sempre un periodo più o meno lungo in cui le antiche tradizioni, istituzioni, convivono con le nuove.
Anche oggi in molte feste e cerimonie popolari troviamo analogie con antichi riti se non, addirittura, la rievocazione proprio di quelle antichissime credenze.
Soprattutto in ambito religioso è facile trovare come accanto ai culti cristiani sopravvivono tradizioni e culti pagani che vengono con il tempo assorbiti, anche con la forza.
Non è facile far cambiare secoli di credenze, di riti, cerimonie che facevano parte dell’anima stessa di un popolo. Accade spesso, infatti, che alcune feste, date, ricorrenze, figure, formule ecc.. vengano assimilate e trasformate nella nuova religione. Questa convivenza e lenta trasformazione sembra essere testimoniata dalla lapide di Opi.
In questo isolato paradiso del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise era ancora più difficile in passato, che in altri posti, trasformare le antiche e consolidate credenze e cerimoniali, ed ecco che allora l’ipotesi che scaturisce da tutto ciò che abbiamo scritto finora: in tempi remoti, quando ai mitici Opici subentrano i Sanniti (Safini ex Sabini) in virtù della “Primavera Sacra”, antichissimo rituale che voleva che per guadagnare il favore degli dei per i futuri raccolti, si sacrificassero i nuovi nati della stagione, per evitare di uccidere i bambini appena nati, questa usanza fu sostituita con l’offerta agli dei di nuovi frutti della terra e si dedicavano i giovani obbligandoli a partire per colonizzare nuovi territori.
A parte una mia valutazione che vuole la derivazione del termine OPI, nome della cittadina, derivante da Opici e non dalla dea Ops, proprio per l’antichità dello stanziamento e, forse, è dall’origine mitica degli Opici che nasce, invece il nome della dea, penso che questo culto di offrire le primizie alla divinità fosse di origine egizia così come anche nel mondo ebraico lo scopo di queste offerte era il medesimo.
Ritengo, quindi, che questa sia una delle più antiche cerimonie della religione in genere e sannita in particolare.
Un culto antichissimo che sopravvive nei secoli, gli dei prendono vari nomi per ragioni diverse e si consolidano nei secoli e forse Ops ricorda antiche radici, ancestrali origini e, non c’è alcuna ragione per escluderlo, trova molte difficoltà ad essere sostituita almeno nella sua essenza. Allora ad Opi esiste la testimonianza di una comunità talmente legata alla propria cultura, alle proprie tradizioni che, anche grazie ad un territorio “difficile” conserva i propri culti e le proprie figure sacerdotali anche in epoca cristiana in una convivenza e reciproco rispetto che è di commovente insegnamento, soprattutto oggi.
Abbiamo indicato come esista da tempi remoti un elemento fondamentale che caratterizza l’economia opiana ovvero l’allevamento degli animali e, legato in modo indissolubile con l’allevamento è sempre stata la Transumanza.
8. Immagine sopra: la cosiddetta “Lastra di Sulmona” recante una epigrafe in latino arcaico “HOMINES EGO MONEO NIQUEI DIFFIDAT SIBI”, traducibile con “Raccomando agli uomini di non aver sfiducia in se stessi”.
“E vanno pel tratturo antico al piano, quasi per un erbal fiume silente, su le vestigia degli antichi padri”
in questo brano della poesia ‘I pastori’ Gabriele D’annunzio paragona i Tratturi ad un fiume silenzioso d’erba, ma cosa erano i tratturi?
I tratturi nascono come vie per portare le greggi dalle zone montuose interne dell’Abruzzo all’inizio del periodo invernale, settembre, al mare e poi permettere il ritorno agli inizi dell’estate aprile-maggio. Avevano una doppia funzione: quella di via e quella di pascolo, infatti con i loro oltre 100 metri di larghezza permettevano alle greggi di camminare comodamente e poter contare su una vasta superficie d’erba per nutrirsi durante il cammino. Lungo il sentiero tratturale erano state costruite una serie importanti di strutture per rifocillare ed ospitare pastori ed animali, ricoveri con recinti, taverne, cappelle, abbeveratoi, attrezzature per scambi commerciali con le comunità che si incontravano.
Diversi erano i percorsi dei tratturi: Aquila –Foggia, Celano-Foggia, Castel di Sangro-Lucera, Pescasseroli –Candela.
Quest’ultimo aveva il nome di Tratturo Regio ed era lungo ben 211 Km e largo dai 65 ai 111 metri. Importanti dovevano essere anche le opere di manutenzione e salvaguardia del percorso tanto che si trovano ancora oggi muri a secco per contenere dislivelli e recinzioni a tutela di dirupi e fossi.
Il tratturo è l’elemento essenziale per lo sviluppo economico, e culturale, dell’Abruzzo per secoli, la sua origine risale agli “antichi padri” della regione: i Sanniti. La colonizzazione del Sannio si fa risalire più o meno al IX – VIII secolo a.C. e, naturalmente, considerata la natura montagnosa del terreno, l’economia di sostentamento si fonda sull’allevamento del bestiame e della pastorizia. Questo tipo di economia costringe fin dall’inizio le popolazioni sannite dell’interno abruzzese a spostare i greggi a seconda delle stagioni e, nello stesso tempo, ad organizzare rapporti commerciali con i popoli confinanti per lo scambio dei prodotti alimentari quali grano, frutta, vino, olio ecc.. contro i prodotti della pastorizia.
A questo scopo la città sannita di Saepinum (Sepino) diventa il primo punto di scambio importante e lo rimarrà anche in epoca romana. Il tratturo molisano attraversava Rionero Sannitico, Forlì del Sannio, Isernia, Miranda, Pettoranello del Molise, Castelpetroso, Sant’Angelo in Grotte, Santa Maria del Molise, Cantalupo del Sannio, San Massimo, Boiano, San Pio Matese, Campochiaro, Guardiaregia, il corso principale di Sepino, Cerce Maggiore.
Il Tratturo Regio che partiva da Pescasseroli metteva in collegamento con la Puglia città antiche sannite come Opi, Civitella Alfedena, Barrea, Alfedena, Scontrone, Val Salice (Castel di Sangro).
Con la caduta dell’impero romano l’allevamento delle pecore fu abbandonato insieme ai tratturi e le costruzioni realizzate per il ricovero degli animali divennero case per gli uomini.
Fu con i monaci benedettini che si realizzarono di nuovo aziende sia per l’allevamento del bestiame sia agricole mentre dobbiamo aspettare il 1447 con il re di Napoli Alfonso d’Aragona, che si riprende l’uso dei tratturi grazie alla “Regia dogana della mena delle pecore” creata a Foggia che aveva come compito la tutela dei tratturi considerati vie fondamentali per lo scambio delle merci e delle idee. Il maggior sviluppo ed uso dei tratturi si ha dal XV al XIX secolo in cui la civiltà della transumanza diviene fondamentale per tutta l’economia abruzzese.
Nel 1806 con l’arrivo dei francesi a Napoli si ha la fine della Regia dogana che insieme alla trasformazione del terreno del tavoliere di Puglia ad uno sfruttamento agricolo, a grano, e non più a pascolo, determina la fine dei tratturi. All’esistenza ed allo sviluppo dei tratturi erano legati una serie di mestieri che scompaiono come i bassettieri (conciatori e commercianti), i tosatori, i cardatori, i tintori, i tessitori, i salatori di formaggi, i massari, i pastori, i caciari, i butteri, i lupari, i guaglioni.
Oggi i tratturi costituiscono un patrimonio materiale e immateriale di grande interesse turistico grazie ai decreti Ministeriali del 1976 e 1980 che li hanno sottoposti ai vincoli della legge 1089/1939 come beni essenziali per l’archeologia, la storia e la cultura.
Nel Medioevo Opi diventa feudo di varie famiglie nobili: Borrello, Di Sangro (celebre il principe Raimondo noto alchimista e scienziato), D’Aquino (come non citare San Tommaso), D’Avalos (ricordo Maria sposa del principe Carlo Gesualdo, inventore del madrigale, che finì uccisa dal marito perché colta in flagranza di adulterio).
In età contemporanea imperversò il brigantaggio figlio della miseria e dello sfruttamento.
9. Immagine sopra; Museo Archeologico di Alfedena (AQ).
10-11. Immagini sopra e sotto, i ruderi del Blockhaus dei briganti.
Nella Val Fondillo ad Opi lungo un crinale del colle dell’Osso si trovano i ruderi del Blockhaus, in tedesco case di pietra, sono alcuni resti di muratura in pietra assolutamente fatiscenti ma che ci raccontano antiche ed emozionanti storie di un passato non molto lontano ma che appartiene oramai al mito.
“…”colpisci, vendicami, altri non ebbero pietà di me, di tuo padre, di tua sorella!””…Ed ora dopo tanti anni vi ripeto che quel figlio che ha a sorte di nascere da una virtuosa madre, dessa avendo ricevuto il minimo oltraggio da un uomo prepotente, se non prende vendetta, egli è un codardo, un uomo dappoco. Dunque io che nascendo, ho creduto che sulla terra ero qualche cosa, per un oltraggio fatto alla mia povera madre, mi sono accinto a far scorrere torrenti di sangue, e vi sono riuscito a meraviglia!..”
12. Immagine sopra; Carmine Crocco. Brigante d’Abruzzo.
Questo è un brano tratto dal libro “Come divenni brigante” di Carmine Crocco e lo riporto come inizio anche della nostra storia.
Il brigante nasceva così, per vendetta, ma sempre, soprattutto per miseria. Una situazione economica come già rilevato nel 1700.
“ …un quadro socio economico sostanzialmente omogeneo, di dignitosa povertà, che se non consentirà da un lato l’emergere di potentati locali – come i Sipari a Pescasseroli, i Graziani a Villetta, gli Antonucci a Civitella, potentati sovente emersi per appropriazioni indebite e per arbitrio come dimostrato nel caso di Sipari, dall’altro, garantirà uno sviluppo armonico e “democratico”, senza sostanziali squilibri ed ostentazioni ed esercizio del potere, salvo naturalmente quello, malefico, ecclesiastico, con le sue numerose “Cappelle, Chiese, e Luoghi Pii” e relativi ingenti patrimoni connessi, che tuttavia, assolveranno, almeno alla necessaria funzione di soccorso e carità, in luogo di uno Stato ancora assente e comunque mai presente se non per la riscossione di tasse”.
(da “Opi al tempo dei Don” di Nicola Vincenzo Cimini).
Il fortino dei briganti o “baraccone i je brejande“ come viene chiamato ad Opi nasce probabilmente intorno al 1867, anche se non abbiamo una data certa, quando vennero distaccati a Pescasseroli, Opi, Barrea e dintorni vari reparti di Fanteria e Bersaglieri, oltre alla Guardia Nazionale.
13. Immagine sopra; Il monumento equestre a Vittorio Emanuele II all’altare della Patria a Roma (foto Giancarlo Pavat).
Stiamo dopo il 17 marzo del 1861 quando a Torino si riunisce il Primo Parlamento Italiano e viene proclamato Vittorio Emanuele II Re d’Italia, ma, in realtà di unità non si può davvero parlare. Esistono differenze troppo radicate fra regioni e regioni, fra paesi e paesi, fra zone e zone, troppo distanti sono le condizioni economiche e troppo era radicato e forte il legame del sud con i Borboni per accettare di punto in bianco di sottostare al Re Sabaudo.
Un episodio che Andrea Di Marino racconta nel suo bel libro “L’uomo dal Vardamacchje di capra” (testo da cui ho tratto molte notizie) è emblematico di questa situazione di conflitto: ad Opi, dopo l’Unità d’Italia, i cittadini si rifiutarono di riconoscere il tricolore e, su istigazione del parroco, assalirono la sede della Guardia Nazionale al grido di “viva Francesco II, a morte Garibaldi”.
14. Immagine sopra; Il monumento equestre a Giuseppe Garibaldi al Gianicolo a Roma (foto Giancarlo Pavat).
Naturalmente la rivolta fu sedata ed i capi furono incarcerati. Ė in questo clima fatto anche di soprusi ed angherie dei vincitori contro i vinti, che si sviluppa il brigantaggio. In realtà i briganti nascono molto prima del 1860, ma è da questa data che il fenomeno acquista maggior rilievo.
“In questo contesto di nuove ingiustizie, il brigantaggio politico alimentato dai borboni e dal papato trovava territorio fertile, non solo con azioni di disturbo e di uccisioni singole, come diverse avvenute in territorio di Pescasseroli ed Opi tra il 1799 ed il 1807 ma anche con la presa di interi paesi ed uccisioni di massa. Come quelle operate da Benedetto Panetta di Vllalatina che a capo di una banda di 700 briganti, arrivò ad assediare Atina nel settembre 1806 e poi nel 1807 a saccheggiare Gioia dei Marsi, facendo strage di nobili, recandosi poi a Pescasseroli “ con trofei di orecchi, nasi e dita mozzate, infilati a mò di collane”. Ed anche dopo diverse bande continuarono ad operare..” (N.V.Cimini op,cit).
Anche molti cittadini furono complici dei briganti come Luca Tarquinio di Pescasseroli “arrestato per aver fornito viveri ai briganti” o Remigio Tatti di Opi
“accusato di aver fornito vestiario” o Antonio Gasparrone di Sonnino “che nel marzo 1821 si rese responsabile insieme a Celestino Maccari di Cataletto e Domenico Ricci di Opi, di omicidio a scopo rapina in territorio di Pescasseroli”.
Nel Fortino di Opi si rifugiarono varie bande fra cui ricordiamo Domenico Fuoco, il brigante chiamato Matera e Bucci che commisero vari saccheggi proprio ad Opi, derubando nel 1812 due famiglie.
La storia del brigante Domenico Fuoco è emblematica della natura e ragione del brigantaggio, quello vero, non banditismo che fu tutt’altra cosa.
15. Immagine sopra; Angelo Pezza detto Frà Diavolo (Fonte Wikipedia).
Il brigante Fuoco si ispirò, quasi identificandosi, al brigante Angelo Pezza detto Frà Diavolo, celebre per essere stato uno dei principali protagonisti del famoso esercito dei Sanfedisti guidati dal cardinale Fabrizio Ruffo, esercito che nel 1799 pose fine alla Repubblica Napoletana restaurando la monarchia borbonica. Anche il nostro Fuoco era un fedele monarchico infatti passò dalle fila dell’esercito borbonico in cui militava come sergente, dopo la disfatta del Volturno, a continuare “in proprio” la battaglia contro l’esercito piemontese.
Domenico Fuoco nasce a San Pietro Infine il 16 aprile 1837, figlio di una famiglia di contadini e pastori, fin da piccolo aveva mostrato un carattere fiero ed autoritario, presto fu arruolato nell’esercito borbonico dove raggiunse il grado di sergente servendo fedelmente il suo re.
16. Immagine sopra; I Garibaldini alla battaglia del Volturno (Fonte Wikipedia).
Dopo la sconfitta rovinosa sul Volturno lasciò l’esercito e tornò al suo paese di origine. In paese, però, oramai tutti si erano schierati con i piemontesi e, lui, che amava girare con la divisa borbonica, era additato a traditore e fu costretto a fuggire dopo aver subito varie angherie da un signorotto locale.
Da questo momento nasce la sua avventura di ribelle e brigante, stiamo nel 1860 e Fuoco si unisce prima ad un gruppo di disertori poi si allea con il brigante Chiavone, altro personaggio importante per la storia del brigantaggio di Opi.
Quando Chiavone morì, 1862, Fuoco organizzò una sua banda fra i monti della sua terra. Strettissimi furono i rapporti con i rappresentati dell’ex governo borbonico con cui collaborò ricevendo finanziamenti, spesso si recava a Roma (ancora sotto Pio IX) dove esisteva una vera e proprie rappresentanza dell’ex monarca Borbone.
17. Immagine sopra; Francesco II di Borbone, re delle Due Sicilia nel 1860 (Fonte Wikipedia).
Riuscì a riunire numerose piccoli gruppi di sbandati formando una banda composta da più di 150 uomini. Fuoco aveva formato quella che fu chiamata la “banda regia” per evidenziare la fede politica del brigante, e si distinse per la crudeltà e la ferocia con cui eliminava quelli che considerava nemici e per dieci anni fu il dominatore assoluto dei territori fra Lazio, Abruzzo e Campania.
Fu furbo, sanguinario, spietato e inafferrabile, tanto da avere sulla sua testa numerose taglie. A proposito del Blockhaus in Val Fondillo ad Opi si ricorda che, partendo proprio da questo fortino, il brigante Fuoco il 4 dicembre 1865;
“catturò , nel bosco di Valle Fredda, un certo Francesco De Luca che si trovava a fare legna; questi, minacciato di morte e accompagnato da una brigantessa di nome Annunziata, fu costretto a recarsi dal prete di Opi per procurare viveri alla banda. La cosa però non riuscì, in quanto la brigantessa venne arrestata e gli altri briganti costretti a fuggire…Il 20 giugno 1867 si rifece viva la banda di Fuoco e fu incriminata per aver ucciso 150 ovini appartenenti ad un signore di Civitella Alfedena presso i pascoli di Pianezze di Opi“. (A. Di Martino,op.cit.).
“L’Unità d’Italia diventò un pretesto, una motivazione d’appoggio a quelle che erano lotte intestine, scaturite già dalle rivolte antiborboniche del 1848” (M. Zambardi).
18. Immagine sopra; Pio IX fotografato da Adolphe Braun nel 1875 (Fonte Wikipedia).
Non si contano i sequestri, le rapine, gli omicidi ma anche i combattimenti contro l’esercito piemontese o i gendarmi, della banda di Domenico Fuoco, che morì il 18 agosto del 1870 a causa del tradimento di un suo fido collaboratore all’età di 33 anni.
Abbiamo visto che il brigante Fuoco mosse i primi passi con il brigante Luigi Alonzi detto “Chiavone” (soprannome che stava ad indicare una forte “ascendenza” sul sesso femminile), che insieme a Cuoco, Giulio Cesare De Sanctis detto “Scarpaleggia”, Domenico Coja detto “Centrillo”, Bernardo Stramenga, Nunzio Tamburini, Nunziato Mecola, Primiano Marcucci ecc.. (oltre 360) imperversavano nelle terre della Marsica.
Solo per dare altre informazioni su questo fenomeno mi soffermo anche su Chiavone, nato a Sora il 19 giugno 1825 e morto a Trisulti il 28 giugno 1862.
19-20. Immagini sopra e sotto; in alto, il brigante Luigi Alonzi detto “Chiavone” (Fonte Wikipedia). In basso, la banda dei briganti di Chiavone nel refettorio della Certosa di Trisulti in Ciociaria (Fonte Wikipedia).
Anche Chiavone da buon brigante operò, fedele suddito di re Francesco II, contro l’esercito piemontese distinguendosi in varie vittorie. Naturalmente anche lui di origine contadina ed anche lui fu sergente nell’esercito borbonico e quando Garibaldi entrò a Napoli, Chiavone fu chiamato dal re, che si era rifugiato a Gaeta, per avere il suo aiuto contro il governo provvisorio che si era costituito a Sora.
21. Immagine sopra; Panorama estivo della Certosa di Trisulti (FR) (Foto Giancarlo Pavat 2023).
Il Chiavone, alla guida di una colonna borbonica e di una gran parte della popolazione, al grido di “viva il Re” entrò in Sora e gettò a terra il Tricolore.
Chiavone era un abile stratega tanto da sconfiggere 700 soldati garibaldini ad Avezzano. Le imprese di Luigi Alonzi furono tutte imperniate su battaglie contro il Regno Sabaudo per mantenere il territorio di Sora sotto il governo del re Francesco II.
Sempre sostenuto dai Borbone, fu, secondo il suo punto di vista, un patriota, ma un brigante secondo i piemontesi che con l’accusa di aver compiuto crimini di vario tipo e scelleratezze di ogni genere, lo fucilarono.
“Chi sono i briganti? Lo dirò io, nato e cresciuto tra di essi. Il contadino che non ha casa, non ha campo, non ha vigna, non ha prato, non ha bosco, non ha armento; non possiede che un metro di terra in comune al camposanto. Non ha letto, non ha vesti, non ha cibo d’uomo, non ha formaggi, tutto gli è stato rapito dal prete al giaciglio di morte o dal ladronaccio feudale o dall’usura del proprietario o dall’imposta del Comune e dello Stato….Ma il brigantaggio non è miseria, è miseria estrema, disperata: le avversioni del clero e dei caldeggiatori, il caduco dominio e tutto il numeroso elenco delle volute cause originarie e di questa piaga sono scuse secondarie e occasionali, che ne abusano e le fanno perdurare. Si facciano i contadini proprietari. Non è cosa difficile, ruinosa, anarchica e socialista come ne ha la parvenza. Una buona legge sul censimento, ai piccoli lotti del beni della Casta ecclesiastica e demanio pubblico ad esclusivo vantaggio dei contadini nulla tenenti, e il fucile scapperà di mano al brigante…Date una moggiata al contadino e si farà scannare per voi, e difenderà la sua terra contro tutte le onde barbariche dell’Austria-Francia “
(da uno scritto di Francesco Saverio Lipari riportato da A.Di Marino op.cit.).
Ad Opi, fra i faggi maestosi del colle dell’Osso in Val Fondillo ancora i ruderi di imponenti mura ci raccontano storie lontane storie di anime dannate che ancora cercano pace.
Un unico ambiente che misura mt 2 x mt 7 con le mura fatte in blocchi di pietra ben squadrati per un’altezza che attualmente arriva a due metri. Vi erano vari finestroni e due accessi. Sembra che, come già scritto, la costruzione iniziale risalga intorno al 1867 come fortino per i Bersaglieri e la Guardia Nazionale, presto però il sito fu abbandonato e divenne rifugio e nascondiglio dei Briganti che potevano controllare varie vie di accesso che da Forca d’Acero-San Donato si diramavano nel territorio abruzzese dall’alto Sangro in poi lungo quella che oggi è la Strada SS83 Marsicana.
Dagli anni 20 in poi varie sono state le ipotesi di riutilizzo del Blockhaus, fortunatamente abbandonate ed oggi il fortino attende solo di essere restaurato e reso accessibile alle visite. Se è vero, come è vero che le pietre raccontano anche quando sono solo dei ruderi sperduti in montagna mai luogo fu più ricco di emozioni come questo, emozioni legate a storie di quelli che furono falsi eroi e vere vittime, condottieri e assassini, patrioti e rinnegati.
Il “Mondo a parte” di Opi continua a far rivivere storie passate immerse nelle nebbie, nei boschi di una montagna che ci appartiene e che fa parte del nostro DNA, rispettandola rispetteremo noi stessi ed il nostro futuro.
(Guglielmo Viti).
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