LE DUE AQUILE; di Giancarlo Pavat e Martina Pirosini.

 

 

Immagine di apertura; Federico II di Svevia (1194-1250), lo “Stupor Mundi” con il vessillo con l’Aquila nera imperiale in campo oro. Particolare del dipinto di Arthur Georg Ramberg (1819-1875) intitolato “Federico II riceve un’ambasceria araba”  (Maximilianeum, Monaco di Baviera).

 

LE DUE AQUILE

LA STORIA DIMENTICATA DELL’ULTIMA STIRPE SVEVA, I DE ANTIOCHIA, E DEI LORO ALLEATI, I DE CECCANO, NEL BASSO LAZIO 

di Giancarlo Pavat e Martina Pirosini
E’ risaputo che la Storia non si fa con i SE e con i MA. Ma molti si sono chiesti come sarebbero andate le cose se nel 1268 re Manfredi di Svevia avesse vinto la battaglia di Benevento contro gli usurpatori francesi di Carlo d’Angiò spalleggiato dalla Santa Romana Chiesa in mano a pontefici d’Oltralpe. 

2. Immagine sopra: Manfredi di Hohenstaufen, o Manfredi di Svevia (1232 – Benevento, 26 febbraio 1266), incoronato Re di Sicilia nella Cattedrale di Palermo il 10 agosto 1258 ad opera del vescovo di Agrigento Rinaldo Acquaviva  (miniatura dalla “Nova Cronica” di Giovanni Villani). Manfredi è stato l’ultimo sovrano della dinastia sveva del Regno di Sicilia. Come si evince anche dalla miniatura, aveva adottato come blasone l’AQUILA NERA Imperiale in campo argenteo. Ma secondo alcuni araldisti questo blasone sarebbe in realtà stato concepito dal nonno paterno  di Manfredi, ovvero Enrico VI Hohenstaufen al momento dell’incoronazione a Re di Sicilia nel 1294. Non a caso il blasone d’argento con l’Aquila nera è chiamato anche “di Svevia-Sicilia”.

Lo storico napolitano Giovanni Antonio Summonte, nella sua “Historia della Città e Regno di Napoli”, descrivere in questo modo il blasone adottato da Manfredi di Svevia; “L’arme, ò insegne ch’egli portò fur quelle dell’Impero, salvo che dove il padre portò il Campo d’oro, e l’Aquila nera, egli portò il Campo d’argento, e l’Aquila nera

3 (Immagine in basso).

 

Oppure se due anni dopo, a Tagliacozzo negli Abruzzi, il nipote Corradino, l’ultimo diretto discendente legittimo di Federico II “Stupor Mundi”, non avesse perso uno scontro praticamente già vinto e non avesse terminato la sua breve vita in piazza del mercato a Napoli pronunciando le parole di Cristo sul Monte degli Ulivi. 
La ferocia bestiale del Francese si era già abbattuta sui figli inermi e innocenti di Manfredi, condannati ad una atroce prigionia (narrata dalla scrittrice e archeologa Teresa Ceccacci nel toccante libro “La reggia del silenzio. La stirpe dannata di Federico II” , Arbor sapientae 2017). Sorte che grida ancora giustizia al Cielo e per la quale nessuno (nemmeno certi pontefici “Santi”) ha mai chiesto perdono. 

4. Immagine sopra: Marzo 2022, la scrittrice e archeologa Teresa Ceccacci illustra la tragica vicenda di re Manfredi e dei suoi figlioletti davanti alla statua dell’ultimo sovrano Svevo di Sicilia posta sul Monte Cacume nell’ambito del “Sentiero di Dante (foto archivio IlPuntosulMistero)

 

Per il Mezzogiorno d’Italia che sotto i Normanni e gli Svevi era stato il faro della Civiltà europea e mediterranea, cominciò un lungo periodo di oppressione e oscurità. Spezzato dal coraggio e orgoglio dei Siciliani al Vespro del Lunedì dell’Angelo del 1282, quando cacciarono i Francesi da tutta l’isola.
“Se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”.”
Così scriverà Dante nell’VIII Canto del Paradiso. Sottolineando proprio il dominio oppressivo degli Angioini, la “mala segnoria
Ma anche nella Penisola il desiderio di rivalsa contro l’oppressione angioina e papale non si era spenta. Così come non era tramontato l’ideale Svevo e Imperiale. Il Ghibellinismo era più vivo che mai anche perché c’era ancora una discendenza del grande Federico che la Chiesa di Roma e gli Angioini non avevano annientato. Ed è di questa storia che vogliamo parlare oggi. Una storia dimenticata. Forse deliberatamente. Una ennesima damnatio memoriae che sembra aver colpito tutti coloro che stavano dall’altra parte della barricata. 
La Storia che vogliamo raccontarvi è quella di Federico d’Antiochia, figlio naturale dello “Stupor Mundi”, e della sua discendenza che tenne ancora ben alto il vessillo con l’Aquila nera.
Federico nacque tra il 1222 e il 1224. Si è a lungo favoleggiato su chi fosse la madre.
La libellistica clericale mise in giro la voce che fosse il frutto di una relazione tra l’imperatore e una schiava musulmana antiochena. 
Da questa origine della madre sarebbe nato l’appellativo con il quale il piccolo Federico verrà chiamato e con il quale passerà alla Storia. 
In realtà gli storici sono concordi nel ritenere che la madre fosse una certa Maria (nota anche come Matilda) ovvero una rampolla d’alto lignaggio, appartenente a una nobile famiglia siciliana; i “de Antiochia”, appunto. Secondo un altro sparuto gruppo di studiosi, la madre (che alcuni chiamano Beatrice) discenderebbe nientemeno che da Boemondo principe di Taranto, eroe della Prima Crociata che nel 1096 aveva espugnato Antiochia con una astuzia degna di Odisseo. Si tratta del Principe Crociato della stirpe degli Altavilla, fondatore del Principato d’Antiochia, di cui ancora oggi è possibile visitare il Mausoleo a Canosa di Puglia.

5. Immagine sopra; il Mausoleo di Boemondo, principe di Taranto e di Antiochia a Canosa di Puglia (foto G. Pavat 2017) 

Qualunque sia la verità storica, lo ‘Stupor Mundi“, che amò sempre molto di più i figli naturali che quelli legittimi, nel 1240 lo nominò conte di Albe.
A questo proposito ci si consenta una breve considerazione. È assai probabile che uno dei motivi per cui la storia dei de Antiochua nel Basso Lazio sia stata snobbata e dimenticata, vada ricercata nel fatto che Federico de Antiochia, con una buona dose di ipocrisia perbenista, sia stato considerato un “figlio bastardo” e quindi non meritevole di attenzione.  Paradossalmente, laddove non si è fatto problemi lo “Stupor Mundi”, se lo sono fatte le schiere di storiografi bacchettoni che sono venuti dopo, soprattutto in Ciociaria.  Ovviamente il motivo della damnatio memoriae non è solo questo. Ma ne parleremo piu avanti. 
Tornando al giovane Federico “de Antiochia”, successivamente diventerà pure Siignore di Celano e di Loreto Aprutino in Abruzzo. Ma la carica più importante ricevuta dall’Augusto genitore, sarà quella di Vicario Imperiale in Toscana, che tenne dal 1245 sino al 1250. Al suo fianco c’era il capo dei ghibellini fiorentini Farinata degli Uberti, eternato da Dante nella Divina Commedia nel Canto X de “l’Inferno”.
«Ed el mi disse: “Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ‘l vedrai”.
Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno a gran dispitto.»
(Inferno, Canto X, vv. 31-36)
Alla morte del padre nel dicembre del 1250, Federico de Antiochia rifiutò di sottomettersi a papa Innocenzo IV, schierandosi con il fratello ed erede legittimo della corona imperiale, Corrado IV.
Morto quest’ultimo il 21 maggio del 1254 di malaria a Lavello in Lucania, si schierò con Manfredi e combatté al suo fianco contro i Guelfi e il Papato.

6. Immagine sopra: Sarcofago di Federico d’Antiochia. Cripta del Duomo di Palermo (foto G. Pavat 2017)

7. Immagine in basso; l’Aquila Sveva scolpita sul sarcofago di Federico d’Antiochia (foto G. Pavat 2017).

 

 

Federico de Antiochia morirà a Foggia nel 1256 mentre era impegnato nella riconquista della Capitanata.
Il figlio di Federico II di Svevia si era sposato attorno al 1240 con la nobildonna Margherita, figlia di Giovanni di Poli (nipote di papa Innocenzo III).
I due avevano avuto tre figli; Corrado (1242-1320), Filippa (1243-1273) che sposerà Manfredi Maletta e Maria che sposerà Bernabò Malaspina.
Ovviamente è con Corrado (che poi verrà indicato come I) che continuerà la stirpe dell’AQUILA NERA e che metterà profonde radici nel Basso Lazio.
Corrado combatterà nella Marca Anconetana per Manfredi, venendo catturato a tradimento, nel 1262, dal Rettore Pontificio a Monticchio. Riuscì però a fuggire e a continuare la lotta. Non fu presente alla battaglia di Benevento del 1266 ma a quella di Tagliacozzo del 1268, al fianco di Corradino e di Annibaldo I de Ceccano. Ove il Sogno Imperiale spiegò ancora una volta le ali.

8. Immagine in alto; Gioia e Giancarlo Pavat e il blasone imperiale federiciano con l’Aquila nera in campo oro (foto Pavat 2022)

La vicenda del giovane Corradino è di quelle che fecero commuovere i romantici sognatori di ogni epoca.
Corradino era l’ultimo erede di Federico II. La Corona Imperiale e, soprattutto, quella del Regno di Sicilia sarebbero dovute toccare a lui. E non di certo all’invasore Carlo I d’Angiò.
Dopo la morte in battaglia dello zio Manfredi, Corradino cominciò a ricevere pressanti e continue richieste di intervento e discesa in Italia, da parte dei Ghibellini italiani fedeli all’Impero (Conti di Ceccano compresi), contro l’usurpatore francese.
La discesa in Italia fu un successo. Gli aprirono le porte città come Verona, Pavia e la fedelissina Pisa, ghibellina da sempre, che gli mise a disposizione la potente flotta.
Al fianco di Corradino cavalcavano il coetaneo Federico di Babenberg, pretendente alla Corona del Ducato d’Austria e, appunto, Corrado I de Antiochia.
Inoltre, c’erano cavalieri tedeschi, nobili spagnoli al seguito dell’alleato e amico Enrico di Castiglia, e, infine, i Ghibellini Italiani guidati da Galvano Lancia (già Vicario Imperiale in Toscana, Gran Maresciallo di Sicilia e, dopo Benevento, organizzatore della resistenza in Calabria contro gli Angioini) e dal figlio Galeotto.
 
il 24 giugno del 1268, Corradino, il fanciullo cantato dai poeti del “Minnesang“, alla testa delle sue truppe, entrava a Roma tra il giubilo della folla. Beandosi di quella fulgida ma brevissima gloria.
L’incoronazione in Campidoglio (incoronazione “laica” in quanto il Pontefice era stato cacciato da Roma ed era stato reinstaurato il Libero Comune) fu l’apice del suo trionfo.
Il pontefice Clemente IV (1265-1268) lo scomunicò, ma Corradino proseguì ugualmente verso il proprio destino. Che l’attendeva implacabile sui campi della Marsica. A Roma si erano uniti al suo esercito molti nobili della Provincia, tra cui, appunto, Annibaldo I de Ceccano. Anche quest’ultimo, ovviamente, prontamente scomunicato dal Papa. L’ennesima scomunica collezionata da quella stirpe ghibellina e non certamente l’ultima!
Annibaldo I era presente all’incoronazione in Campidoglio e quando, dopo un “Consiglio di guerra” a cui parteciparono Federico di Babenberg, Corrado I de Antiochia, Enrico di Castiglia, Galvano e Galeotto Lancia, venne deciso di invadere il Regno di Sicilia passando per gli Abruzzi e Corradino, con circa 10.000 uomini, lasciò l’Urbe il 18 agosto 1268, Annibaldo I ritornò di corsa nella sua Contea per radunare e equipaggiare le sue truppe.
Per raggiungere l’esercito di Corradino, dopo aver lasciata l’avita Contea, l’armata ceccanese passò per Sora, risalì la Valle Roveto e, finalmente, si incontrò con i coalizzati a Avezzano.
“Carlo d’Angiò, informato dell’ingresso di Corradino a Roma e della sua marcia verso il regno di Sicilia, toglieva l’assedio a Lucera (dove ancor a resisteva la “Guardia Saracena”, fedelissima agli Svevi NDA). Si diresse verso Foggia e da lì avanzò sul lago del Fucino (oggi “Conca del Fucino”, in quanto il lago, all’epoca terzo in Italia per estensione, nel XIX secolo, è stato completamente prosciugato dal principe Alessandro Raffaele Torlonia e i terreni bonificati sono stati destinati all’agricoltura NDA) e già il quattro agosto aveva raggiunto Alba e Scurcola. Quando ebbe deciso che era meglio stringere Corradino sopra l’Aquila verso Sulmona, avanzò contro Ovindoli e al di là dell’AquilaVicino Rio Freddo l’esercito di Corradino varcò la selvaggia terra del confine e penetrò senza ostacoli a Carsoli negli Abbruzzi e poi scese nella valle del Salto”  (da E.A. PapettiI Conti di Ceccano tra Re, Imperatori e Papi”, Cassino, 2006).
Corradino e i coalizzati  avanzarono verso Tagliacozzo, poi verso Scurcola e, il 22 agosto, posero il campo presso Alba.
“Informato che il nemico seguiva la strada verso il lago, Carlo avanzò a marce forzate attraverso il passo di Ovindoli per chiedere battagliaAvvistò le truppe di Corradino quando il 22 agosto stava accampandosi nelle vicinanze di Alba. I campi nemici erano divisi dal Salto: l’uno era collocato nella Pianura Polentina presso Alba, l’altro presso il Castel Ponte in prossimità di Scurcola. L’esercito di Corradino, al mattino seguente, si dispose su due ordini: il primo sotto il comando del senatore Galvano e di Gerardo Donoratico di Pisa, capo dei ghibellini toscani; l’altro, composto per maggior parte da cavalleria tedesca, agli ordini di Corradino” (da E.A. Papetti “I Conti di Ceccano tra Re, Imperatori e Papi”, Cassino, 2006).
Annibaldo I de Ceccano e i suoi cavalieri erano schierati a fianco di Galvano Lancia e di Corrado I de Antiochia.
L’esercito Angioino, oltre che dal crudele usurpatore, era guidato da Alardo (Erard in francese) di Valéry (1220–1277), consigliere di Carlo e suo più valente condottiero. Gli altri comandanti erano Guglielmo l’Estandard e Enrico di Cousence. Sarà proprio Alardo a stabilire la strategia che poi si rivelerà decisiva, guadagnandosi però l’eterno biasimo di Dante Alighieri che vi vedrà un inganno della peggior specie soprattutto se confrontato con il valore cavalleresco degli Svevi.
…E là da Tagliacozzo / ove senz’arme vinse il vecchio Alardo.
(Inferno, XXVIII, v. 18)
Alardo fece dividere i suoi soldati in tre gruppi (il primo si posizionò sulle pendici della collina ove si era allestito l’accampamento reale, il secondo presso il fiume Salto e il terzo si nascose in una forra fuori vista) e, vista l’incredibile somiglianza fisica, fece indossare l’armatura e le insegne reali al comandante Enrico di Cousence, mentre l’Angiò di poneva al sicuro defilandosi dall’ormai prossimo combattimento. Il piano era semplicissimo. Il vecchio comandante era convinto che gli Svevi sarebbero sicuramente riusciti a prevalere sulle prime schiere Angioine e, scambiando Enrico di Cousence per il sovrano, avrebbero cercato di ucciderlo per poi abbandonarsi a festeggiamenti e al saccheggio del campo avversario. In quell’istante avrebbe lanciato all’assalto il terzo gruppo, quello tenuto nascosto agli occhi degli Imperiali.
Sebbene la stragrande maggioranza degli armati di Carlo d’Angiò fossero franco-provenzali non mancavano gli italiani. Sia i Guelfi lombardi e toscani che nobili romani e laziali filopapalini; come Bartolomeo Orsini Giovanni e Pandolfo Savelli. Come, purtroppo, altre volte accadrà nella Storia, Italiani combattevano contro altri Italiani.
Com’è noto, la battaglia decisiva si svolse il 23 agosto, in un luogo non identificabile oggi, ai cosiddetti Piani Palentini (o “Pianura Palentina”), tra Scurcola Marsicana e Albe, per Dante comunque presso Tagliacozzo. Lo svolgimento dello scontro andò proprio come aveva previsto il “vecchio Alardo”.
Alle prime luci dell’alba di quel fatale 23 agosto, Enrico di Castiglia con i suoi cavalieri spagnoli attraversò per primo il Salto e caricò i franco-provenzali. Anche il resto delle Forze Imperiali attaccarono e travolsero i nemici arrivando ad uccidere Enrico di Cousence. Visto il successo e convinti di aver eliminato il tiranno usurpatore, gli Imperiali, tra grida di giubilo, si dispersero a saccheggiare l’accampamento francese. E fu un tragico errore. Alardo di Valéry alla testa degli 800 cavalieri freschi tenuti di riserva nella forra contrattaccò e travolse gli avversari, nonostante innumerevoli atti di eroismo, soprattutto di Galvano e di Enrico di Castiglia.
Sconfitto con l’inganno a Tagliacozzo, Corradino cercò di raggiungere le città fedeli come Pisa ma venne catturato a tradimento da Giovanni Frangipane, signore di Torre Astura. Infido doppiogiochista, nonostante avesse ottenuto grandi favori da parte degli Hohenstaufen, vendette il giovane Corradino a Carlo d’Angiò in cambio di moneta sonante. Poi sappiamo tutti come andò a finire.
Il Francese fu spietato, e ben si comprende la condanna di Dante. Galvano fu costretto ad assistere alla decapitazione del figlio e del nipote Giordano d’Agliano, prima di finire a sua volta sotto la mannaia del boia. Enrico di Castiglia rimarrà per 23 anni in carcere.
Corradino e Federico di Babenberg furono condotti a Napoli. Il 29 ottobre, salirono sul palco dell’esecuzione allestito in piazza del mercato.
Il cronista Saba Malaspina, pur avverso gli Svevi, ammette che il giovanetto si comportò eroicamente e morì con i conforti religiosi.
Bartolomeo di Nicastro, nella sua “Historia Sicula”, riporta il discorso che Corradino, prima di essere decapitato, tenne al popolo radunatosi ai piedi del patibolo. Dichiarò di morire innocente in quanto aveva cercato soltanto di recuperare quanto gli spettava di diritto per eredità paterna. Chiese che venissero risparmiati i suoi compagni e, in caso contrario, di venir sepolto con loro. Sembra che le sue ultime parole siano state quelle di Gesù;
Si calix iste a me transire non debet, in manus tuas commendo spiritum meum”.
La fine di Corradino di Svevia (che Indro Montanelli nella sua “Storia d’Italia” definirà “un infanticidio”) è una macchia indelebile nella storia della Chiesa di Roma. La ferocia con cui, sebbene per mano del sanguinario usurpatore Angioino (basta osservare la sua statua realizzata dal contemporaneo Arnolfo di Cambio per capire che razza di individuo fosse), si comportò Clemente IV, è indegna per il Vicario di Cristo.
La tragica fine del giovane Corradino colpì profondamente il popolo napoletano. Che, tra l’altro ebbe più pietà degli arroganti francesi che lasciarono insepolti sulla spiaggia i Martiri di piazza del mercato. Infatti il corpo del sventurato fanciullo fu ricoperto con un mucchio di ciottoli dai Napoletani.
Tra costoro nacque anche una leggenda che affascino’ gli artisti e gli intellettuali del Romanticismo tedesco. Qualcuno presente tra la folla sul luogo dell’esecuzione, affermò di aver visto una grande AQUILA NERA calare in picchiata dal cielo e bagnare un’ala nel sangue di Corradino e poi riorendere il volo e dirigersi verso il Nord. L’episodio fu subito interpretato cone un  presagio di una prossima vendetta contro gli usurpatori.

9. Basilica di Santa Maria del Carmine Maggiore a Napoli. Tomba e statua di Corradino di Svevia. Qui vennero tumulate le spoglie di Corradino grazie all’intervento della madre Elisabetta di Wittelsbach (o di Baviera). Secoli dopo, il re di Baviera Massimiliano II fece erigere questo monumento funebre realizzato da Thorvaldsen. La lastra frontale del basamento su cui poggia la statua di Corradino riporta la dedica del Sovrano di Baviera, in cui il giovane Corradino viene definito “l’ultimo degli Hohenstaufen”.

 

Nel frattempo era giunta a Napoli, la madre Elisabetta di Wittelsbach, che si era precipitata in Italia nella speranza di poter riscattare il figlio quindicenne. Infatti, generalmente, nel Medio Evo, il nemico catturato in battaglia o subito dopo la sconfitta, non veniva mai messo a morte. Era più conveniente farlo riscattare, guadagnarci sopra, insomma.
Ecco perché la spietatezza del papa e di Carlo d’Angiò sconvolsero i contemporanei. Il loro comportamento fu visto (Dante docet) come qualcosa di inumano che andava aldilà dell’odio per una Stirpe ghibellina in cui tutti i suoi membri erano stati almeno una volta nella vita scomunicati dalla Chiesa di Roma.
Elisabetta, non potendo fare più nulla per salvare la vita del figlio, riuscì almeno da dargli una cristiana sepoltura.
Oggi le spoglie dell’ultimo aquilotto riposano nella Basilica di Santa Maria del Carmine Maggiore a Napoli. Il sacello è caratterizzato da una statua realizzata dallo scultore danese Bertel Thorvaldsen (1770–1844) per volere di Massimiliano II re di Baviera (1811–1864). Ancora oggi, nella chiesa napoletana viene celebrata una Messa annuale in suffragio di Corradino di Svevia, grazie al cospicuo lascito della madre Elisabetta
 
Dopo la disfatta di Tagliscozzo,  Annibaldo I de Ceccano si salvò rifugiandosi nei castelli inespugnabili della sua Contea, dove nemmeno i mercenari pontifici e gli Angioini osarono stanarlo. Evidentemente i de Ceccano facevano ancora paura.

10. Immagine sopra; uno scorcio interno del Castello comitale di Ceccano (foto archivio de IlPuntosulMistero)

Corrado I de Antiochia venne invece fatto prigioniero a Tagliacozzo ma si salvò dalla vendetta del sanguinario Carlo d’Angiò (che, andando contro tutte le regole della Cavalleria, mise a morte tra indicibili torture tutti i nobili romani catturati che si erano schierati con Corradino), grazie alla previdenza e furbizia della moglie Beatrice, figlia di Galvano Lancia, sposata nel 1258. 
Infatti, costei teneva prigionieri nel proprio castello di Saracinisco due cardinali Orsini, Napoleone e Matteo, fratelli di Gian Gaetano il futuro papa Nicolò III. Costoro erano alleati di Carlo d’Angiò e gli propose uno scambio. La vita e la libertà dei due cardinali per quella del marito. L’usurpatore francese accettò e consegnò Corrado al pontefice che lo liberò in cambio degli Orsini.
Corrado I, oltre che conte di Albe e Loreto, sarà signore di Anticoli (per questo ancora oggi il paese si chiama Anticoli Corrado) e di Piglio nell’attuale Ciociaria.
Non è chiaro come Piglio e il suo castello siano passati dai Signori “de Pileo” a Corrado de Antiochia. 
In ogni caso i de Antiochia eressero un secondo castello (o forse ampliarono una rocca già esistente), l’attuale “castello basso”, e trasformarono Piglio in una piccola ma fiorente capitale del suo staterello ghibellino incuneato nello Stato della Chiesa e posto a guardia della valle dell’Aniene che collegava gli Abruzzi con Roma.

11-12. Immagini sopra e sotto; due suggestivi scorci notturni del Castello Basso di Piglio (FR)(foto Martina Pirosini)

 

Oltre a Piglio e Anticoli Corrado, la Signoria dei de Antiochia comprendeva Saracinisco, Sambuci, Rocca de Suricis e (per breve tempo) Trevi, Filettino e  Vallepietra, per citare le località più importanti.
Da Beatrice Lancia, Corrado I ebbe diversi figli (gli studiosi non sono concordi sul numero; 8 o 9, tra cui Filippo, Signore di Piglio, definito “Sancte Romanae Ecclesie rebellis notorius“! Degno discendente dello “Stupor Mundi“.
Ed è con il figlio primogenito di Filippo, Corrado (II), che l’Aquila nera (in campo argenteo) dei de Antiochia si unirà con quella Bianca (in campo rosso) dei de Ceccano. 
Le DUE AQUILE che avevano già combattuto fianco a fianco a Tagliacozzo assieme a quella Imperiale di Corradino di Svevia.
Ora le due Aquile si univano in un matrimonio che aveva il sapore di una alleanza politica anti angioina e antipapale.

13. Immagine sopra: l’Aquila Imperiale nera di Federico II di Svevia.

14. Immagine in basso: Aquila Leporaria dell’ambone della Collegiata di Santa Maria ad Amaseno (FR), antico possedimento dei Conti de Ceccano. Secondo don Italo Cardilli, parroco di Amaseno ma pure storico dell’arte, questa scultura è un simbolo federiciano (foto G. Pavat 2019)

Nonostante continue scomuniche, pressioni politiche, minacce, attacchi armati da parte dei Pontefici, dei vescovi e dei sovrani Angioini, i ghibellini del Basso Lazio, ovvero i de Ceccano e i de Antiochia continuarono la lotta.
Il sogno di una vasta Signoria ghibellina a sud di Roma, estesa dal Tirreno agli Appennini, sembrò realizzarsi verso la fine dell’inverno del 1359.
Infatti il 3 febbraio di quell’anno, nel Castello di Maenza, vennero stabiliti i capitoli matrimoniali tra Giacomo I de Ceccano, Signore di Maenza (per conto della figlia Perna) e il notaio Paolo del Gauldo all’uopo incaricato da Corrado II de Antiochia, promesso sposo della ceccanese. Tra i vari patti e obbligazioni dotali di beni venne stabilito che se Perna de Ceccano fosse morta senza legittima prole, il marito Corrado II avrebbe dovuto restituire la dote di 3500 fiorini, garantita per 2500 fiorini dal pegno della metà delle mole di Valle e metà delle altre terre di dominio di Giacomo de Ceccano. 

15. Immagine sopra: suggestioni notturne al Castello di Maenza (LT). (Foto Archivio de IlPuntosulMistero)

 

Inoltre si stabilì che Perna avrebbe legittimamente potuto usufruire di 500 fiorini e per i restanti 1000 fiorini, di completamento della dote, la costituzione di pegno, da parte di Corrado II, ovviamente con il consenso del fratello Matteo “super medietate Castri Pilei, videlicet super medietate fortllicii, terre et eius territorii“.
Precedentemente a questi accordi matrimoniali con il de Antiochia, relativamente al Signore di Maenza, vanno ricordati alcuni episodi che lo videro protagonista.
Ad esempio, nel 1336, quando assieme al fratello Tommaso II conquistò Ceprano, città chiave per le comunicazioni tra il Regno angioino e Roma.

16. Immagine sopra; la cosiddetta “Torre Sveva” a Ceprano (FR).  In realtà la struttura (praticamente l’unico monumento medievale sopravvissuto nella cittadina ciociara) risale al XIV secolo . Quindi esisteva al momento della conquista di Ceorano da parte dei due Conti ceccanesi. (Cartolina della Collezione privata di G. Pavat)

17. Immagine in basso; uno scorcio  attuale della “Torre Sveva” di Ceprano (foto G. Pavat 2022)

 

La conquista del “Passo di Ceprano” non solo aveva un grande valore strategico ma pure simbolico.
Dopotutto è la  “Ceperan, la’ dove fu bugiardo/ ciascun Pugliese” di Dante Alighieri, il luogo in cui Manfredi, l’11 ottobre 1254 si era (momentaneamente) sottomesso a Innocenzo IV e, infine, dove (con tutta probabilità) i resti mortali dell’ultimo Svevo Re di Sicilia subiscono la secolare vendetta della Chiesa di Roma. 
Non a caso ancora oggi a Ceprano si “festeggia”, con tanto di rievocazione storica in costume, l’umiliazione di Manfredi, ma nessuno ricorda la vittoria di Giacomo e Tommaso de Ceccano.

18. Immagine sopra: un altro scorcio della cosiddetta “Torre Sveva” di Ceprano (FR) (foto G. Pavat 2020)
Comunque, forti di quel successo i due ceccanesi decisero di risolvere, ovviamente, con le armi (come era solita fare da tempo  la stirpe comitale) le diatribe con il cugino Riccardo “Vetulus”. Successivamente Giacomo si trovò in disaccordo anche con il fratello Tommaso e dopo alcuni scontri si giunse a un compromesso sulle spartizioni territoriali sia nel 1353 che due anni dopo, nel 1355.
Giacomo I non poté (o non volle) fare nulla quando, nel 1360, Tommaso II venne catturato dal feroce Francesco (Cecco) de Ceccano (figlio del cugino Guglielmo di Giovanni III Juniore) che lo imprigiono’, torturo’ e lo mutilo’ dei piedi. Tommaso II verrà liberato solo nel 1362 e da quel momento verrà chiamato “Il mutilo”.
Giacomo I muore nel 1363 e Perna de Ceccano, moglie di Corrado II de Antiochia, eredita il Castello di Maenza.
Due anni dopo, Corrado II de Antiochia assieme al fratello Matteo (detto anche Mattia o Matuzio) sono ricordati quali Domini castri Pilei per aver donato a un loro vassallo, tale Stefano di Pietruccio del Piglio, in cambio dei servigi resi, un terreno in contrada “Capo de Tullano” (presumibilmente sempre nel territorio di Piglio).
Esistono ulteriori citazioni di Corrado II in altri documenti, datati 1374, 1377 e 1379, relativi a donazioni di beni a Piglio e nel territorio circostante.
Ma Corrado II forte dell’alleanza con l’unica altra stirpe ghibellina del Basso Lazio, i de Ceccano appunto, proseguì la politica di lotta senza quartiere contro i Guelfi e la Chiesa. Dall’altronde L’AQUILA NERA aveva trovato idonei e strategici  nidi nei castelli e rocche dell’alta Valle dell’Aniene.
Corrado II cercava di estendere e consolidare il proprio dominio sia con le armi che mediante esazioni fiscali. In particolare, grazie al controllo del Ponte di Cornuta, punto nevralgico della valle dell’Aniene per il controllo della regione marsicano-sublacense e delle comunicazioni e commerci con l’Urbe, il de Antiochia subissava di tasse e gabelle la guelfa Tivoli.
Sembra che sia stata l’antica Tibur ad attaccare per prima nel 1370 i territori di Corrado II, in particolare Anticoli.
La guerra sarebbe durata, tra alterne vicende, per 10 lunghi anni, di cui si ricordano, in particolare due episodi.
Il primo è la vittoria dell’AQUILA NERA di Corrado II contro i Tiburtini sulle pendici del Monte di Anticoli nel 1372.
Nella battaglia perse la vita anche il condottiero tiburtino Meolo di Andreozzo (che verrà sepolto nel Duomo di Tivoli ma attualmente il sepolcro è andato perduto).
Il secondo episodio è la rivincita dei Tiburtini guidati dal capitano di ventura  Adriano de Montanea. Questo scontro rientra nel più ampio conflitto tra Urbano VI e l’antipapa Clemente VII con cui si era schierato il de Antiochia.
I Tiburtini riuscirono ad avere la meglio sulle truppe di Corrado nella Valle dell’Aniene. Il de Antiochia si salvò rifugiandosi nel suo inespugnabile castello di Anticoli. 
Sembra che i Tiburtini nello scontro abbiano catturato il vessillo dei de Antiochia e che questo sia rimasto esposto almeno sino al XVI secolo nel Duomo di Tivoli. 
A questo proposito c’è però un piccolo enigma storico-araldico. Il grande storico e archeologo Marchetti Longhi, che si è occupato dei de Antiochia di Piglio, citando il Pacifici,  parla di “una bandiera appesa a una trave della cattedrale Tiburtina, bandiera di seta vermiglia con l’Aquila degli Hohenstaufen“.
L’Aquila degli Hohenstaufen è quella nera, non vi è alcun dubbio, ma la “bandiera di seta vermiglia“? Di colore vermiglio, ovvero rosso, era il vessillo dei de Ceccano. Solo che l’Aquila era bianca (o d’argento).

Quindi? Sempre che i due autori non si siano confusi, può essere che, magari per un periodo limitato, Corrado II abbia adottato un blasone che univa le DUE AQUILE dei De Antiochia e de Ceccano?
D’altronde, sebbene la successione sulla Signora di Maenza non sia chiara, i ricercatori storici Eros Ciotti e Carlo Cristofanilli, nel loro lavoro “Il castello di Maenza. Storia e restauro“, citano un documento conservato nell’archivio Segreto Vaticano, da cui si evince che “il castrum magentie, verso il 1371-1372, insieme a quello di Piglio risultava essere nelle mani Corrado II, di suo fratello Matteo” e del figlio di quest’ultimo, Giovanni.
Si tratta del documento citato anche dal pittore e scrittore Luigi Centra nel libro “Castelli di Ciociaria tra storia e leggenda” (1996). Ovvero la “”Tabula Terrarum Campanie et Maritime”, quaderno cartaceo dell’Archivio Segreto Vaticano (Instr. Misc. 5537) datato dall’Ermini  tra il 1371 e il 1373 [in cui NDA] il castrum Pilei, insieme al castrum Magentie compare elencato tra i castelli di appartenenza a nobili, du cui la Chiesa ha diritto solo parziale” scrive C’entra, concludendo che “i proprietari dei due castelli sono ancora Corrado de Antiochia, suo fratello Mattia [Matteo o Matuzio NDA] e suo figlio Giovanni”.
Gli anni 1371-1372 sembrano perfetti come datazione rispetto alla guerra contro Tivoli. Corrado, in qualità di Signore di Maenza, potrebbe davvero aver adottato uno stemma che ricordava quello dei Conti de Ceccano maentini, in particolare del suocero e della moglie Perna, ovvero il campo vermiglio, e quello degli Hohenstaufen, ovvero L’AQUILA IMPERIALE NERA.

19. Immagine sopra; Castello di Maenza (foto G. Pavat 2016)

 

20. Immagine sopra: l’Aquila  Leporaria nell’antico  stemma maentino posto sopra la Porta Urbica. Nell’attuale stemma comunale campeggia sempre un’Aquila nera ma priva della lepre tra gli artigli (foto G.  Pavat 2016)

 

Ma c’è un MA…… Premettendo che gli scriventi non hanno, ovviamente, potuto consultare il documento originale, ovvero la “Tabula Terrarum Campanie et Maritime”, e pertanto si devono fidare delle citazioni degli altri storiografi, la datazione 1371-1372 o 1371-2373, non collima affatto con le date che conosciamo della vita di Giacomo I e Perna de Ceccano.
Abbiamo già visto che Giacomo I muore nel 1363. Il Conte lascia proprie eredi, oltre a Perna, le altre figlie; Giovanna (sua esecutrice testamentaria, morta prima del 1365), Costanza (detta Tanza, morta probabilmente attorno al 1367),  Bella (che secondo alcuni avrebbe sposato il terribile Francesco III de Ceccano, della quale si ignora la data di morte ma comunque, ovviamente,  dopo il padre), Francesca (detta Cecca, moglie del nobile romano Giivanni Conti, che dovrebbe essere morta dopo il 1379), Rita (forse fidanzata con Giovanni figlio di Matteo, fratello di Corrado II de Antiochia. Ma secondo altri questo Giovanni era figlio dello stesso Corrado. Rita dovrebbe essere morta poco dopo il padre).  
Non c’erano eredi maschi in quanto l’unico figlio legittimo, Nicola II era morto qualche anno prima, probabilmente negli scontri contro lo zio Tommaso II. 
Giacomo aveva avuto anche due figli naturali. Annibaldo (V) , diventato Abate e Riccardo che dal padre aveva ottenuto il possedimento di Ansellotto. Entrambi morirono poco dopo il padre. 
Quindi nel 1363 Perna era più o meno l’unica a poter ambire al titolo di Signora di Maenza. Lei aveva sposato Corrado II nel 1359. Quindi non si comprende perché il de Antiochia sarebbe diventato Signore del castrum Magentiae, soltanto 8 anni dopo la morte di Giacomo I. Addirittura quando la stessa Perna risulterebbe ormai defunta. Anche se si ignora la data esatta.

21. Immagine sopra: Castello di Maenza (foto G. Pavat 2016)

Inoltre non va scordato che, in quegli anni il feudo di Maenza, risulta essere già nelle disponibilità di un altro ramo dei de Ceccano , quello di Riccardo II “Vetulus” , il cugino-avversario di Giacomo I. 
Anche in questo caso non è chiaro in quali circostanze e data,  Riccardo ne sia entrato in possesso.
È certo invece che quando la figlia Margherita, dal 1376 Contessa di Ceccano (sua era metà della capitale della Contea), vedova di Carlo de Cabannis (1314-1340), e Contessa di Vico in Capitanata (oggi Trevico in provincia di Avellino) e Duchessa di Lucera (oggi in provincia di Foggia) grazie al secondo marito Pietro Pipino, fece testamento il 17 giugno 1384, era l’unica Signora di Maenza. 
Quindi risulta difficile accettare la datazione 1371-1372 o 1371-1373, per la Signoria maentina  di Corrado II d’Antiochia.
Ci permettiamo di avanzare l’ipotesi che questa vada retrodatata agli anni 1363-1364.
Poi, ma siamo sempre nel campo delle ipotesi, Corrado II potrebbe aver ceduto il feudo maentino a Riccardo II “Vetulus” , forse perché risultava troppo lontano dai territori aviti dei de Antiochia.
Una risposta certa si avrà soltanto quando emergeranno dagli archivi nuovi documenti scampati  alla damnatio memoriae a cui si accennava all’inizio.
Il vessillo dei de Antiochia con L’AQUILA NERA continuò a sventolare nel Basso Lazio e sui monti della valle dell’Aniene ancora per circa un secolo, con due dei numerosi figli di Corrado II, ovvero Corradino e Giovanni.
Corradino potrebbe essere figlio di Perna de Ceccano ma la stragrande maggioranza degli storici ritiene che sia figlio della seconda moglie di Corrado II, ovvero Tommasa di Aversa.
Relativamente a Giovanni, secondo il De Cupis (“Regesto degli Orsini e degli Anguillara” in Bollettino della Società Abbruzzese Antinori, XXI) l’ascendenza risulta ancora più complicata. Innoratica, citando Gelasio Caetani, scrive che Giovanni de Antiochia è ricordato nel testamento di Giacomo I come suo nipote (quindi figlio di Perna?) e promesso sposo all’altra figlia Rita, quindi di sua zia.
Secondo altri, invece, Giovanni sarebbe figlio di Corrado II e Lella Colonna, terza moglie del de Antiochia. 

22. Immagine sopra: nella chiesa di San Rocco, posta lungo il tracciato della Francigena del Sud, a Piglio (FR), si nota questo affresco riproducente un aquila. La datazione dell’opera è oggetto di dibattito. Potrebbe essere l’unica testimonianza sopravvissuta a Piglio dello stemma dei De Antiochia? 
In ogni caso sembra accertato che il matrimonio tra Giovanni de Antiochia e Rita de Ceccano non sia mai avvenuto per la morte prematura della Contessa ceccanese.
Comunque ormai la saga degli ultimi discendenti dello “Stupor Mundi” stava volgendo al termine. Alle soglie del Rinascimento gli ultimi alfieri dell’AQUILA NERA si estinsero e nel loro feudo subentrarono i Colonna.
Anche se (tanto per non perdere l’abitudine) non è chiaro quando e come avvenne tutto ciò. Su diverse pubblicazioni si trova scritto che il castrum Pilei era passato ai Colonna nel 1430.
Ma esiste un documento da cui si evince che ben 50 anni dopo a Piglio c’erano ancora discendenti diretti dello “Stupor Mundi”.
E non è un documento da poco, visto che si tratta nientemeno che dello Statuto della Terra di Piglio del 1479. Nel quale si legge testualmente che “che li d° Magnifici sig. CORRADINO, PIETRO e LUDOVICO D’ANTIOCHIA e i loro eredi e successori, e ciascuno di essi siano tenuti, e debbano a tutti gli uomini di Piglio specialmente, a qualsivoglia di essi in perpetuo sempre osservare la giustizia e farla osservare in tutte le cause, questioni e controversie”.
Riteniamo che il testo sia decisamente chiaro. Nel XV secolo c’erano ancora appartenenti alla  nobile Famiglia che governavano Piglio.
Alla fine però, la stirpe si estinse per davvero e questa volta definitivamente. Così come accadde ai loro alleati de Ceccano di cui terminò la discendenza maschile. 
Poi, inesorabile, un potere millenario presente la rivincita postuma. Stese un impenetrabile velo di oblio. Una damnatio memoriae che in qualche modo dura ancora oggi. Soprattutto per i Conti de Ceccano, ma non solo.
Una colpevole disinformacia (per usare un termine caro alle dittature dei Paesi Comunisti durante la Guerra Fredda) che abbiamo cercato di scalfire con questo articolo che, lungi dall’essere completo ed esaustivo, si propone come un primo passo, un minimo contributo, per cercare di restituire a due stirpi dure, spesso violente, a tratti sfavillanti, ma comunque valorose, il giusto posto che meritano nella Storia. Nella nostra Storia. 
Chi cancella il Passato, non può avere un Futuro..
(Giancarlo Pavat e Martina Pirosini)

Se non altrimenti specificato, le immagini sono tratte da Wikipedia, che si ringrazia per la disponibilità. 

 

 

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