Le Triplici Cinte o “Gioco del Filetto” a Villa S. Stefano (FR) di Giancarlo Pavat

 

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Le Triplici Cinte o “Gioco del Filetto” a Villa S. Stefano (FR)

di Giancarlo Pavat

Nei paesi di lingua tedesca lo chiamato “Mùhle”, come la “Mùhlebrett” (letteralmente “tavola da mulino) di Bressanone (BZ). In Inghilterra è noto come “Morris”, “Mill”, “Merels” o “Tic Tac Toc”. Per i francesi è il gioco del “Mérelles”; “Morels” in Spagna e “Mølle” in Norvegia.

Stiamo parlando del passatempo, comunemente indicato in italiano come “Tria” o “Tris” oppure anche “Filetto”. Ma anche come “Mulino”, “Mulinello”, ed infine “Smerello”, dal latino “merellus”: pedina.
(nella foto a lato: panorama di Villa S. Stefano).

La plancia di gioco riporta uno schema geometrico formato da tre quadrati quadrati concentrici, con quattro segmenti che uniscono i punti mediani dei lati.
Si trova sul retro di molte le scacchiere e si gioca in due, normalmente con le medesime pedine della “dama”.
Vince chi “mangia” tutte le pedine dell’avversario. Ma è probabile che inizialmente il simbolo non abbia avuto fini unicamente ludici.
Bensì di carattere apotropaico, forse esoterico o addirittura religioso. Ed in questo caso viene identificato con il nome decisamente evocativo di Triplice Cinta.
Molti vi hanno visto la rappresentazione del Tempio di Salomone, e per questo motivo sarebbe stato utilizzato dai Cavalieri Templari, altri delle mitiche Mura di Atlantide, oppure addirittura del Creato e dell’eterna ricerca iniziatica di Dio.
Indipendentemente da come lo si voglia interpretare, si tratta comunque di un simbolo antichissimo, di cui esiste anche una versione più elaborata; con altri segmenti che uniscono al centro anche gli angoli dei quadrati.
Presente in moltissime civiltà, anche piuttosto distanti tra loro, sia nel tempo che nello spazio; tanto da non poter essere attribuito ad alcuna in particolare. Una Triplice Cinta si trova persino sulle lastre, secondo la tradizione provenienti da Gerusalemme, che formano il trono di Carlo Magno ad Aquisgrana.
Nelle nostre città, soprattutto presso vetusti palazzi o castelli, siti archeologici o chiese, è talmente diffuso che il cittadino comune non lo nota nemmeno.
Difficile datarlo, all’interno di un arco temporale che va dalla preistoria, ai Romani, al Medio Evo. Il Lazio non è da meno.
Dalle grandi Basiliche della Cristianità, come San Giovanni Laterano e San Paolo a Roma, a piccoli borghi medievali della Ciociaria.

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(Foto 1, 2, 3 e 4).
Come, ad esempio il caratteristico paesino di Villa Santo Stefano; che potrebbe essere considerata una vera e propria capitale delle Triplici Cinte.
Località arroccata nella valle del fiume Amaseno, in provincia di Frosinone ma al confine con quella di Latina. Incisi in determinati luoghi; noti agli anziani ma scivolati nell’oblio per le giovani generazioni, questi simboli sono recentemente tornati al centro della curiosità e dell’interesse, non soltanto locale.
Ne sono stati individuati diversi esemplari, ma altri ne stanno spuntando fuori grazie alle attente ricerche di appassionati ricercatori.
Che si sono messi a scrutare attentamente ogni angolo, ogni gradino, ogni antica lastra di pietra riutilizzata nell’edilizia.
Tanto da poter proporre un interessante itinerario tra le strette viuzze e pittoresche piazzette del centro storico santostefanese. Alla scoperta di elementi artistici ed architettonici notevoli ed insoliti.
Tre Triplici Cinte (forse esiste una quarta ma ormai è illeggibile) (foto 1, 2, 3 e 4) sono visibili sul lungo sedile in pietra sotto la “Loggia”, alla quale si accede attraverso la porta urbica, rifatta nel XV secolo, presso la “Torre di Metabo”.

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Un’altra si trova sopra un grande blocco in pietra sotto un arco in via della Portella (foto 5-6), nella parte bassa del borgo.
(nel cerchio della foto a sinistra: il blocco di pietra con la Triplice Cinta).
(in basso: foto 6).

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Una Triplice Cinta è visibile su un gradino di una scalinata (foto 7) in pietra interna ad un edifico privato (e quindi non visitabile), noto a Villa Santo Stefano, come “palazzo marchese” (foto 8), costruito probabilmente sui resti dell’antica Rocca.

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(foto 7: Triplice Cinta su gradino di Palazzo Marchese).

Decisamente più interessante l’esemplare posto su un monolite calcareo che funge da soglia di un edificio indicato con il numero civico 23 di via San Pietro (foto 9 e 10), alle spalle della Parrocchiale di Santa Maria Assunta in Cielo. Anche questa Triplice Cinta si trova, come le precedenti, sistemata orizzontalmente, ma una attenta osservazione del blocco, lo individua come materiale di reimpiego.
La presenza di una “croce latina” sembra indicare che un tempo fosse posto verticalmente. Quindi, anche la Triplice Cinta si trovava nelle medesima posizione. In questo caso è difficile attribuirle scopi ricreativi.

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(foto 8 a sinistra: Palazzo Marchese).
Una Triplice Cinta si trova su un muretto in un terreno privato presso l’antica fontana (oggi prosciugata) detta “La Rentra (Foto 11), ai piedi della rupe tufacea su cui sorge Villa S. Stefano, vicino alla “Cona” della Madonna delle Grazie (Foto 12).

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Un’ulteriore Triplice Cinta è stata segnalata nel mese di gennaio 2014, presso la cappelletta campestre detta “Cona di San Marco” (Foto 13), posta in via Roma all’ingresso del paese. Ma ricerca sul posto non hanno portato all’individuazione dell’esemplare.
(a sinistra foto 9: Triplice Cinta sulla solgia del civico 23 di via S. Pietro).
(in basso foto 10: via S. Pietro).

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Il modello originario, l’archetipo di tutte le Triplici Cinte santostefanesi potrebbe essere l’esemplare, molto consumato, scoperto dal sottoscritto nel 2006 (Foto 14) su un blocco tufaceo tra i ruderi dell’antichissima e misteriosa chiesa di San Giovanni in Silvamatrice (Foto 15) nelle campagne santostefanesi. Quasi certamente appartenuta ai Cavalieri Giovanniti. Questa Triplice Cinta è stata rubata da ignoti trafugatori nella primavera del 2008.
(sotto Foto 11: la Triplice Cinta presso la fontana detta “La Rentra ).

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(in basso a sinistra: foto 12: La “Cona” della Madonna delle Grazie).
(in basso a destra: foto 13: La “Cona” di S. Marco).

La datazione di tutti questi esemplari, risulta un impresa improba se non impossibile. Lo stesso discorso vale se si vuole cercarne gli autori. La capillare diffusione di questo Simbolo si potrebbe spiegare con il fatto che siano state incise ad imitazione di altre, viste in luoghi particolari. Gli artefici, forse semplici appartenenti alle varie arti dei mestieri, o al popolino, ne intuirono, magari velatamente, la pregnante simbologia e le usarono con finalità apotropaiche, come simboli di scongiuro, di buon auspicio.

(Giancarlo Pavat )

(in basso, foto 14 e 15: la Triplice Cinta trafugata e le rovine della chiesa di S. Giovanni in Silvamatrice).

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