L’edificio dell’ex scuola parrocchiale, oggi canonica, di Santa Croce (Trieste)
Testo e ricerche di Giancarlo Pavat
Fotografie di Gioia Pavat
Ormai sono come il prezzemolo. Li mettono ovunque. D’altronde, lo diceva già qualche decennio fa, lo scrittore Umberto Eco… “I Templari c’entrano sempre“. E già… stiamo parlando ancora una volta dei celebri Pauperes Commilitones Christi Templique Salomonici (1) la cui esperienza storica si concluse tragicamente con gli arresti in Francia del venerdì 13 ottobre 1307, con le persecuzioni, le torture e la spaventosa prigionia durata poco meno di un decennio, con lo scioglimento (in via amministrativa!) dell’Ordine da parte della Chiesa con la Bolla papale Vox in excelso del 22 marzo 1312 e, infine, con i roghi sull’isoletta dei Giudei in mezzo alla Senna davanti a Notre-Dame dell’11 marzo del 1314.
Se i Templari storici (quelli veri! I loro autoproclamatisi discendenti moderni non ci interessano dal punto di vista della ricerca storica) hanno terminato la loro parabola (durata circa 2 secoli) nel XIV secolo, ciò non toglie che non ci sia mistero successivo a tali date in cui non siano stati tirati in mezzo. Anzi, anche prima. Visto che c’è stato chi ha voluto anticipare la data di nascita dell’ordine, portarla a ben prima del 1118.
Una seria ricerca storica si deve basare su elementi oggettivi. Certo. Ben vengano tesi e ipotesi di lavori, anche innovative, “controcorrente”, ma devono essere supportate da indubbi riscontri. Non bastano indizi. Servono prove. Ovviamente costituite da documenti, in primis, ma pure da evidenze che arrivano dall’iconografia, toponomastica, architettura e inveterate tradizioni locali. E nonostante tutto non sempre è possibile giungere a risultati inequivocabili. Spesso la Verità rimane ancora lontana.
Riteniamo in ogni caso giusto che si parli anche di queste ipotesi non riscontrabili, purché lo si faccia al condizionale, specificando, appunto, che non vi è ancora nulla di certo. Che nonsi tratta di verità assodate. E invece, purtroppo, si continua ad assistere a deprimenti spettacoli in cui sedicenti “esperti ricercatori” fanno a gara achi la spara più grossa pur di conquistare un pizzico di attenzione da parte del pubblico. Nulla di più scorretto, non solo nei confronti della Verità storica ma pure degli appassionati. Molti dei quali, privi della necessaria preparazione culturale. E, quindi, non in grado di discernere il vero dal falso o dal verosimile. Si va a colpire la fiducia con cui queste persone si avvicinano alla tematica “Templare” e quindi anche ai lavori di questi “esperti”. Arrivando a prendere per oro colato, qualsiasi corbelleria venga loro proposta.
D’altronde i Templari “tirano”, fanno vendere riviste e libri, fanno salire l’audience di programmi televisivi. Insomma è comprensibile come, laddove ci sia qualcosa di misterioso, si “preferisca” (diciamo così) tirare in ballo loro piuttosto che tentare di cercare la verità storica magari basandosi sul sacrosanto principio del “Rasoio di Occam” (2).
Vista sul Golfo di Trieste da Santa Croce
Queste che potremmo definire “suggestioni templari” hanno ammaliato pure diversi ricercatori che si sono occupati di un edificio molto particolare presente nel villaggio di Santa Croce, oggi graziosa frazione carsica del comune di Trieste, da cui dista circa soltanto 13 chilometri. Un’isola di quiete immersa nel Carso triestino e affacciata allo splendore del Golfo di Trieste, ove lo sguardo può spaziare sino alle coste della Penisola Istriana.
L’edificio, un tempo scuola parrocchiale e attualmente canonica, è addossato alla chiesa dell’ ”Invenzione della Santa Croce”.
Chiesa dell’Invenzione della Santa Croce
Questa chiesa, pur essendo attestata sin dal XIII secolo, nelle forme attuali risale al XVI secolo e venne consacrata nel 1628. Rimaneggiata più volte nel XVIII, nel 1823 ebbe una seconda consacrazione. Sulla facciata si nota un concio calcareo con una iscrizione e la data 1570. Sul portale una seconda iscrizione in latino cita il vescovo di Trieste Rinaldo Scarlicchio e l’anno 1613. Sul campanile alto circa 30 metri, c’è una ulteriore scritta con l’anno 1543.
Sempre a Santa Croce è visibile anche un’altra chiesa, una cappelletta (viste le dimensioni) in stile gotico ma risalente al XVII secolo; quella dedicata a San Rocco, protettore dei viandanti, dei pellegrini, dei mendicanti e degli appestati. Realizzata come ex voto nel 1646 in quanto la comunità del villaggio di Santa Croce era sfuggito alla terribile epidemia di peste che aveva flagellato il territorio. Interessante e curiosa è certamente la statua del vecchio mendicante posta accanto all’ingresso. Opera di uno scalpellino locale, certo Dousak, trovò l’attuale sistemazione alla fine del XIX secolo. Le offerte che venivano messe nella borsa di pietra del questuante scivolavano in uno sportellino all’interno della cappelletta.
Gioia e Giancarlo Pavat davanti alla Cappelletta di San Rocco
Tornando all’ex scuola parrocchiale, questa è stata realizzata mediante l’utilizzo di blocchi calcarei ben squadrati e lavorati. Su alcuni di questi si notano, sebbene consunti dal Tempo e dagli agenti atmosferici, diversi simboli dai significati non sempre chiari.
Il simbolo dell’oca scolpito su un blocco di pietra
Si riconoscono un’oca (o comunque un palmipede), quelli che sembrano due animali quadrupedi (forse) intenti ad inseguirsi. C’è chi vi ha riconosciuto un cavallo e una capra, chi un cane. Poi si vedono uno spadino o un bordone ovvero un bastone da pellegrino, una sorta di stella con una freccia (una “Stella cometa”?) che sembra indicare una direzione, una meta, una conchiglia di San Giacomo e alcune strane lettere (sempre che lo siano) che, stando ad alcuni studiosi potrebbero riferirsi all’astrologia o all’alchimia.
La Stella con la freccia forse rappresentazione di una “Stella cometa”
Ma ciò che ha catalizzato maggiormente l’attenzione (e la fantasia) è un monolite lapideo che funge da architrave di un ingresso al pianterreno, che reca tre iscrizioni parallele.
Il monolite che funge da architrave con le due iscrizioni misteriose e la data 1489
La prima (quella più in alto) reca dei caratteri che non sono mai stati decifrati. E ancora oggi costituiscono un mistero insondabile.
La seconda è in latino e vi si legge HOC OPUS MAGISTER GEORGYUS FECIT.
L’ultima (quella più in basso) è una data: MCCCC89.
Infine, sulla destra dell’architrave è stato scolpito una sorta di “rosone” a 16 raggi (c’è chi lo chiama “Fiore a 16 petali”).
Diciamo subito che la data 1489 appare essere stata incisa successivamente alle due iscrizioni sopra di essa. È stata avanzata l’ipotesi, che ci trova concordi, che questa data si riferisca alla costruzione dell’edificio dell’ex scuola parrocchiale di Santa Croce.
Probabilmente, a questo punto ai lettori sarà sorta una domanda. Ma non si stava parlando di Templari?
Infatti. Su diverse pubblicazioni (anche di un certo rilievo) si può leggere che l’edifico in argomento sarebbe appartenuto ai Cavalieri rossocrociati, in quanto recherebbe, appunto, simbologie utilizzate dall’Ordine.
Quest’ultima frase, messa in questi termini, fa sorridere. Visto che una “Simbologia templare” non è mai esistita. Non ci stancheremo mai di ripeterlo. I Templari non hanno mai avuto una loro peculiare simbologia. Nel corso dei due secoli di esistenza sul palcoscenico della Storia, in alcuni loro insediamenti sono stati utilizzati simboli mutuati da altri soggetti. Ma si sono trattate di iniziative che potremmo definire più a livello locale che a livello dell’intero Ordine. Persino la celebre Croce Rossa non venne utilizzata sin dalle origini come simbolo di riconoscimento.
“La Croce sull’abito non viene menzionata nella Regola, né nella versione in latino, né in quella in volgare d’Oil. Fu Papa Eugenio III, il 24 aprile 1147, in occasione della partenza della cosiddetta “Seconda Crociata” (1147-1149), a concedere ai Cavalieri Templari di portare in perpetuo la croce sulle vesti“ (3)”.
Frequentemente su libri, pubblicazioni e persino durante interventi a convegni da parte dei soliti sedicenti esperti, si trova e si sente il termine “Croce Templare”, con cui, generalmente, si intende la “Croce Patente”. Quella con i bracci che si allargano all’estremità verso i bordi dello scudo.
In realtà quella che il pontefice autorizzò a portare sulle vesti era una “Croce greca”. Ovvero quella con i bracci di uguale misura. Successivamente i Templari utilizzarono la “Croce semplice” (o “piana”), ovvero quella i cui bracci toccano il bordo dello scudo. Poi la “Croce Patriarcale” (chiamata pure “Croce traversa” o “di Lorena”), formata da due bracci orizzontali su uno verticale.
“Successivamente venne adottata, anche in forma stilizzata, la “Croce Potenziata”, chiamata anche “Ramponata”; ovvero quella alle cui estremità era presente un segmento perpendicolare che la trasformava in una “croce a otto punte”. Molte volte si trovano anche le “Croci fichè” o “fitte”, cioè con una specie di peduncolo a forma di pugnale per sostenere la stessa croce” (4)
Da questo breve excursus si comprende che, si parli di croci oppure di altri simboli, etichettarli con l’aggettivo “Templari”, nel senso che sono peculiari ed esclusivi dell’Ordine, è un errore e falso storico.
Il blocco di pietra con le strane lettere (sempre che lo siano) che, stando ad alcuni studiosi potrebbero riferirsi all’astrologia o all’alchimia
Nemmeno il “Baussant” (o Valcento in italiano) può essere considerato un “Simbolo dei Templari”. Ancora oggi si discute se fosse un vessillo troncato, o partito, “bianco e nero”, oppure (come ritiene la stragrande maggioranza dei medievisti) fossero due drappi distinti di stoffa, uno bianco e uno nero, legati all’asta. Ma a prescindere da questo e nonostante il Valcento sia presente nei rari affreschi coevi riguardanti l’Ordine (ad esempio nella chiesa di San Bevignate a Perugia), non vi è traccia di una sua codificazione nella “Regola“.
Quindi, tornando alla canonica ed ex scuola parrocchiale di Santa Croce, attribuirla ai Templari solo perché ci sono simboli “strani”, lascia il tempo che trova.
Ma non contenti di simili obiezioni, i “fautori dell’Ipotesi Templare“, hanno leggermente modificato il tiro, concentrandosi sul monolite che funge d’architrave e che reca il rosone e le enigmatiche scritte. Mando a dirlo, la prima, quella ancora non decifrata, altro non sarebbe che un “Codice segreto Templare”!!! Ogni commento è superfluo.
La seconda: HOC OPUS MAGISTER GEORGYUS FECIT, è stata interpretata nel senso che un MAGISTER di nome GEORGYUS, con tutta probabilità un mastro scalpellino, avrebbe lavorato per i Templari. Ovviamente prove di questa committenza…nemmeno l’ombra. Ma siccome la fantasia non ha limiti…. nella prima metà del XX secolo, Antonio von Majlly, nel suo “Sagen aus Friaul und den Julischen Alpen” (Leipzig, Dieterich 1922), scrisse che sul Monolite di Santa Croce si leggeva la frase MAGISTER SCOSZTEUS FECIT. Inaugurando così la “caccia” a questo fantomatico “maestro scozzese“. Che per molti ricercatori non poteva che essere un Templare. Fatica inutile questa “cerca” del “Maestro Scozzese”. Giova infatti ricordare che, all’interno dell’Ordine, il titolo di Magister spettava soltanto al Capo Supremo dei Templari. Ovvero quello che più tardi verrà chiamato “Gran Maestro”. Di fronte a tale evidenza e, indubbiamente non sapendo più che pesci pigliare, i signori precedentemente citati hanno scritto che il MAGISTER GEORGYUS altri non era che il “Gran Maestro” in persona, committente della struttura.
L’elenco dei nomi di coloro che ricoprirono tale la carica è noto. E non vi compare alcun “Gran Maestro” di origini scozzesi, né tanto meno uno di nome Georgyus o similare.
Si è ribattuto dicendo che non si può prender per buono l’elenco accettato da tutti gli storici, perché (forse) esisteva un “Maestro segreto”. Ovviamente non vale nemmeno la pena di rispondere a certe affermazioni, visto che siamo nel campo della fantastoria buona per certi romanzi di successo!
Ovviamente senza scordare l’evidente incongruenza con la data 1489, che tutti ritengono si riferisca alla data di realizzazione della canonica. I Templari erano ormai scomparsi da 182 anni!
Il monolite che funge da architrave con le due iscrizioni misteriose e la data 1489
A questo punto la logica e il buon senso vorrebbero che sull’ipotesi “Templari a Santa Croce” si fosse messa una pietra sopra. E invece no! Con una costanza e pervicacia degne di migliore causa, i “fautori dell’Ipotesi Templare”, hanno proposto che non fosse la nostra ormai nota ex scuola parrocchiale ad essere appartenuta all’Ordine, bensì un altro complesso da cui sarebbero stati presi i blocchi di pietra poi riutilizzati a Santa Croce.
Che si sia usato materiale recuperato altrove non vi è ombra di dubbio. Lo dimostra la cura nella realizzazione dei singoli conci paragonata alla tecnica un po’ approssimativa con cui venne tirato su l’edificio della canonica. Ma dove si trovava questa involontaria “cava” da cui furono tratti i conci calcarei? A quanto pare non molto lontano da Santa Croce, ma un po’ più in basso!
Infatti, i ricercatori hanno individuato una chiesa con annesso convento che sorgeva nella località costiera di Grignano. Oggi rinomato centro balneare, proprio di fronte al romantico castello di Miramare, Grignano deve il proprio nome, con tutta probabilità, a quello del ricco possidente terriero romano Agrinius.
Il monolite con il Rosone o Fiore a 16 petali
L’archeologo triestino Pietro Kandler (1804-1872) mediante scavi nella baia di Grignano, dimostrò la remota e lunghissima presenza insediativa con ville e un porticciolo (oggi inglobato in quello attuale) di epoca romana. È accertato che sui pendi attorno alla località si coltivava la vite da cui si ricavava il prelibato vino “Pucino”, molto apprezzato alla Corte sul Palatino a Roma.
In questa zona, all’inizio del Medio Evo, sorse un piccolo convento di monaci benedettini. Esiste una interessante testimonianza iconografica dell’esistenza di questo cenobio.
L’arciduca Massimiliano d’Asburgo (1832-1867), dopo aver deciso di costruire il proprio “castello” sul selvaggio promontorio di Miramare (i lavori iniziarono nel 1856), commissionò al pittore istriano (ma formatosi tra Trieste e Bruxelles) Cesare Dell’Acqua (Pirano d’Istria 1821- Bruxelles 1905) una serie di 6 quadri aventi come soggetto altrettanti episodi storici (decisi dallo stesso Massimiliano) svoltisi tra Miramare e Grignano.
Tra questi la visita dell’Imperatore Leopoldo I° d’Asburgo (quello a cui i Triestini hanno dedicato la statua bronzea posta su una colonna che svetta in piazza della Borsa) proprio a Grignano. Il titolo della tela (che oggi è possibile ammirare, assieme alle altre 5, nella sua sede originaria nel Castello di Miramare) è inequivocabile “L’Imperatore Leopoldo visita il convento dei Francescani a Grignano nel 1660” (5). Sullo sfondo della scena storica si notano la chiesa di Santa Maria e il convento della Beata Vergine di Grignano.
Lo storico triestino Luigi de Jenner (1803-1868), che ebbe modo di soggiornare nell’antico convento, non solo ne immortalò la struttura mediante alcuni disegni, ma dopo accurate ricerche archivistiche, riuscì a stabilire alcuni punti fermi della storia del Cenobio. Ad esempio è certo che nel 1338, fosse in mano ai Benedettini. I quali, dopo alcune incursioni da parte dei Turchi, (tra cui, la peggiore fu quella del 1471) e numerose pestilenze, abbandonarono Grignano, venendo rimpiazzati dai Francescani. Nel XVI secolo chiesa e convento soffrirono altri disastri, come il sisma del 1511 e attacchi da parte della flotta dei Veneziani in perenne guerra contro gli Asburgo. In una occasione i Veneziani arrivarono a sradicare interi vigneti come preda di guerra.
Nel XVII secolo, grazie al vescovo triestino Rinaldo Scarlicchio (6), il Convento di Grignano conobbe un nuovo sviluppo. Che però si arrestò per poi volgere rapidamente al declino al volgere del secolo. L’epilogo fu la soppressione a seguito delle leggi emanate nel 25 novembre 1784 dall’imperatore Giuseppe II d’Asburgo-Lorena, uno dei massimi esponenti del cosiddetto “Dispotismo Illuminato”.
Piazza della Borsa a Trieste con la statua dell’imperatore Leopoldo I° d’Asburgo
L’Imperatore, pur figlio della cattolicissima Maria Teresa d’Asburgo, inaugurò una serie di riforme in campo religioso che presero il nome di “Giuseppinismo”. Tolse alla Chiesa immunità e privilegi, il tutto al fine di eliminare ogni ingerenza della stessa negli affari e nella vita del suo multiforme e multietnico Impero. Giuseppe II soppresse un terzo dei conventi, circa 700, e ridusse sensibilmente gli ordini religiosi contemplativi. In tutti i domini degli Asburgo i religiosi passarono da circa 65.000 e meno di 30.000. Inoltre inaugurò una stagione di grande tolleranza sia in campo religioso (abolendo ogni discriminazione nei confronti dei Protestanti, degli Israeliti, degli Ortodossi e degli appartenenti alla Massoneria) che in quello culturale (basati pensare alla protezione che garantì alle opere di Wolfgang Amadeus Mozart).
Quindi anche il Convento di Grignano fu travolto dalle riforme illuministiche di Giuseppe II. Libri, documenti d’archivio e altre testimonianze storiche del cenobio andarono dispersi. Mentre gli arredi sacri furono acquisiti dalla parrocchia di Opicina, altra frazione di Trieste. La struttura venne venduta a privati. Nel XIX secolo, la chiesa, utilizzata pure come stalla e fienile ma ormai in rovina, venne abbattuta. Il convento subì diversi rimaneggiamenti tanto da perdere l’aspetto originario e diventare una abitazione privata.
Quindi, ricapitolando, sarebbe questo il complesso religioso da cui nel XV secolo (se prendiamo per buona la data 1489) vennero prelevati i blocchi con gli enigmatici simboli e il monolite con le iscrizioni.
Ma come avrà notato il lettore attento, nella storia della chiesa di Santa Maria e del convento della Beata Vergine di Grignano non sembra esserci la presenza del Tempio. E allora? Da dove saltano fuori i “Cavalieri dai Bianchi Mantelli”?
Possibile che la citazione della loro presenza in diversi lavori su Santa Croce/Grignano sia dovuta solamente ad un nefasto copia/incolla eseguito senza alcun riscontro? Purtroppo in parte sì. Ma una fonte (forse) esiste. Tenuto presente che non risulta che il Kandler (7) o l’altro storico triestino che si è occupato del complesso religioso di Grignano, ovvero il carmelitano Ireneo Della Croce (1625-1713), abbiano mai fatto cenno a prove della presenza grignanese dell’Ordine, dobbiamo ritornare al già citato storico de Jenner. A parte qualche articolo sulla rivista “L’Istria”, de Jenner non ha mai pubblicato nulla, ma fu un grandissimo ricercatore d’archivi. Riuscì a mettere assieme una mole incredibile di documenti storici originali. Ebbene, in questo mare magnum trovò diverse citazioni del Cenobio di Grignano. Meta e tappa di pellegrinaggi già nel XI secolo, ben prima della partenza della cosiddetta “Prima Crociata” e, quindi, pure della fondazione dei Pauperes Commilitones Christi Templique Salomonici.
Eppure sembra che sia stata proprio l’esistenza di questo “percorso”, che toccava ovviamente anche Trieste, e, attraverso l’Istria, scendeva lungo la Dalmazia e la Penisola Balcanica, conduceva fino a Bisanzio e da qui o via terra attraverso l’Anatolia o per mare, arrivava in Terrasanta e a Gerusalemme, che sia sorta l’idea che a gestire il Cenobio fossero i Templari.
Si è parlato di documenti coevi relativi ai Templari che de Jenner avrebbe visto e consultato tra le antiche carte del soppresso convento di Grignano. Documenti probatori ma (manco a dirlo) ora scomparsi.
Si è parlato (e si parla) degli atti di un processo ai Templari del 1310, in cui vengono nominati i fratres Guillelmus de Cinttono, Bertrandus de Marscilia (presbiter) e Berallus de Grignanis, omnes de ordine Templi.
Ma non è chiaro se quel “de Grignanis” si riferisca davvero alla località costiera triestina.
Insomma, ancora una volta trattasi di notizie non supportate da solide fondamenta documentarie.
Grignano a parte, che i Templari ci siano stati a Trieste e nel suo circondario non vi è alcun dubbio. Me ne sono occupato anche in “Nel Segno di Valcento” (edizioni Belvedere 2010). Nell’antica Tergeste possedevano certamente una “domus”. Forse la stessa in cui, secondo diversi storici, sarebbe stato ospitato il re d’Inghilterra Riccardo “Cuor di leone” dopo il naufragio sulle coste del Golfo di Trieste durante il viaggio di ritorno dalla Terrasanta.
A poca distanza da Trieste, appena oltre il confine di Stato, si trova il paesino di Corniale (oggi Lokev nella Repubblica di Slovenia) ove, lungo l’antica via per portava proprio al capoluogo giuliano, sorge una “Chiesetta gotica” appartenuta ai Templari.
La Cappelletta gotica dei Templari a Lokev (Corniale) (foto G Pavat 2019)
All’interno dell’attuale provincia di Trieste, si trova la Valle delle Noghere. Qui è esistito per secoli il “Priorato di San Clemente” deputato al controllo delle vicine saline e della strada che collegava Trieste con Muggia (in mano ai Veneziani). Dal XVI secolo non si hanno più notizie di questo possedimento templare ma i ruderi del complesso erano visibili sino al XIX secolo. Oggi non esiste più alcuna traccia in quanto il territorio è stato completamente stravolto dalla nascita della zona industriale triestina.
Sopra Muggia (TS), quasi al centro della penisola muggesana, si trova la località di Santa Brigida (dopo il Trattato di Pace del 1947 venne annesso alla Yugoslavia, oggi si trova in territorio sloveno, ed è chiamata Sv. Brida).
A circa 160 m slm si trova una chiesetta dedicata alla Santa irlandese (da non confondere con l’omonima svedese) che ha dato il nome alla località.
Nel Medio Evo, accanto alla chiesa, sorgeva un ospizio per pellegrini in cammino verso la Terrasanta. Da Santa Brigida scendevano poi a San Bartolomeo (oggi in territorio italiano), nel cui porticciolo si imbarcavano per proseguire via mare il loro viaggio. Sebbene non esistano prove oggettive, è stato ipotizzato che anche l’ospizio presso la chiesa di Santa Brigida sia stato gestito dai Templari. (8)
Sempre non lontano da Trieste, ma nella “Carsia interna”, oggi in territorio sloveno, sul Monte Savici, sopra il paese di Postumia, importante nodo stradale sin dall’epoca romana e celebre per le sue magnifiche grotte scavate dal Piuca sotterraneo, sorgeva un corrusco castello su cui sventolarono le insegne dei Templari. Del maniero non resta praticamente quasi nulla, visto che è andato distrutto in età moderna. A poca distanza, nella Selva di Piro, i Romani avevano allestito un importante accampamento; il “Castrum ad Pirum“. Nel XIII secolo, i Templari restaurarono una delle vecchie torri e vi costruirono una “mansio” per alloggiare i viaggiatori che percorrevano l’antica via consolare. L’intero complesso venne dedicato ad una santa della Turingia. Oggi non restano che poche rovine sparse tra la vegetazione, ma la località viene ancora chiamata “Santa Geltrude di Piro”.
Infine, presso il paesino di Branik, svetta su una rupe lo scenografico Castello di Rifembergo. Il nome deriva da una Famiglia tedesca, Greifemberg o Reinfemberg, che a cavallo del XIII e XIV secolo lo ebbe in feudo dai Conti di Gorizia. Il maniero risale però al XII secolo, voluto dagli Imperatori tedeschi che lo infeudarono ai Patriarchi aquileiesi. I quali, a loro volta, l’affidarono in “gastaldia” ai Cavalieri Templari (9).
Rimanendo sempre nei dintorni di Trieste ma spostandoci in quella che oggi è l’Istria croata, si incontrano diverse località i cui l’Ordine ebbe possedimenti. Ad esempio (e solo per citarne i più noti) la chiesa di San Giovanni in Prato a Parenzo (10), il Monastero di San Michele di Leme (11), la chiesetta della madonna del Carmelo a Fasana (Pola) nota per le Croci patenti rosse inscritte in una circonferenza del medesimo colore, affrescate sulle pareti interne (12). E ancora, sempre a Pola, la chiesa di Santa Felicita (13). Infine, quello che, forse, è l’insediamento più celebre e misterioso di tutti, se non altro per la serie di enigmatiche simbologie che ancora oggi presenta; ovvero la chiesa della “Beata Vergine dei Campi” o “Campo di Dio” a Visinada. (14)
Sempre a Visinada, anche in un altra chiesa è stata ipotizzata la presenza dei Templari. In stile romanico, datata tra il XIII e il XIV secolo, dedicata a San Giovanni Battista, è decisamente interessante in quanto presenta un mirabile rosone a forma di “Fiore della Vita” sul quale sono scolpiti enigmatici simboli astronomici.
Chiesa di San Giovanni Battista a Visinada con i simboli sul rosone a forma di “Fiore della Vita” (foto G Pavat 2008)
Tornando al villaggio di Santa Croce, un ultimo tentativo di dimostrare la presenza in loco del Tempio si è basato su una icona mariana. Ovvero una statuetta di pietra raffigurante la Madonna con il Bambino. Il manufatto venne scoperto nel 1910 dal Direttore del Civico Museo di Storia e Arte di Trieste professor Alberto Puschi. Si trovava nella cantina della canonica ma un tempo era allocato nella edicola sulla parete laterale, ove adesso c’è una statuetta moderna di Cristo. Sulla cornice dell’edicola è scolpito a bassorilievo un cranio o volto umano in cui qualcuno ha voluto riconoscervi addirittura la raffigurazione di un essere extraterrestre!
Si ignora se questa icona con la Vergine e il Bambino provenga dal Cenobio di Grignano. Oggi è visibile all’interno del Castello di San Giusto a Trieste. Murata sulla facciata della cosiddetta “Casa del capitano”. In base allo stile, la datazione è stata collocata tra il X e il XII secolo. Quindi più o meno coeva della nascita dell’Ordine ma ciò non significa nulla. Non è che tutte le raffigurazioni mariane datate ai secoli XII, XIII e XIV appartengono ai Templari!
Perciò, tornando sempre all’ex scuola di Santa Croce, se i Templari non centrano nulla, come spiegare gli enigmatici simboli scolpiti sui conci? Si è già visto che sono tutti afferenti in modo allegorico e simbolico ai pellegrinaggi. E fu proprio il de Jenner a confermare che il Cenobio grignanese era meta di pellegrini e viandanti che vi trovavano sostegno materiale e spirituale.
È questo il quadro storico, sociale, religioso in cui sono stati realizzati. La Conchiglia, il Bordone, la “Stella cometa”, persino l’oca e i due animali quadrupedi, tutto ci rimanda a quel mondo e alla mentalità, ai pensieri, alle preoccupazioni, alle speranza di coloro che uomini e donne, di qualunque etnia e e idioma, si mettevano in cammino, attraverso l’Europa, per raggiungere mete lontana. Non sapendo nemmeno se sarebbero riusciti nell’intento e se sarebbero un giorno tornati alle proprie case. Spinti soltanto da una Fede incrollabile ed elevati Ideali. Merce rara per Tempi come i nostri.
Ecco perché, trovandoci a Santa Croce e osservando quelle pietre e quei simboli ormai consunti, dedichiamo un pensiero a quegli ignoti artefici. Il valore di quei simboli sta proprio nel fatto che sono una testimonianza della loro esistenza, giunta sino a noi in quanto arrenatasi sulla spiaggia della Storia dopo aver attraversato gli Oceani del Tempo.
D’altronde, quando tacciono gli uomini, parlano le pietre.
Gioia e Giancarlo Pavat a Santa Croce (Trieste)
Se non altrimenti specificato, le immagini sono tutte di Gioia Pavat
NOTE
(1) “Il cronista Guglielmo, Arcivescovo di Tiro, racconta che quei Cavalieri si presentarono al sovrano Baldovino II di Bourg esternando il desiderio di servire Cristo vivendo in povertà, castità e obbedienza. Presero a seguire i dettami dei Canonici Regolari e a provvedere alla difesa dei pellegrini lungo le pericolose strade della Terrasanta. Essendo poverissimi, il Re concesse loro alcuni ambienti nell’area dell’antico Tempio di Salomone, da cui deriverà successivamente il loro nome. A guidare quei cavalieri un certo Hugo de Paynes o, secondo alcuni, Ugo de Paganis (la cui origine, probabilmente italiana, è ancora oggetto di controversi studi e dibattiti), il quale divenne il primo “Magister” del nascente Ordine dei “Pauperes Commilitiones Christi Templique Salomonici”, poi riconosciuto dalla Chiesa con il Concilio di Troyes del 1128” da G. Pavat “Nel Segno di Valcento” edizioni Belvedere 2010.
(2) Per “Rasoio di Occam” si intende un principio di metodo detto “principio di economia” o “principio di parsimonia” secondo il quale di fronte ad un problema o un enigma, tra le svariate soluzioni possibili, va sempre scelta quella più semplice e ovvia. Prende il nome dall’erudito francescano inglese Guglilemo Occam vissuto nel XIV secolo che avrebbe formulato per primo questo principio e che, anche per questo viene ritenuto il “padre” del pensiero scientifico moderno.
(3) G. Pavat “Nel Segno di Valcento”, edizioni Belvedere 2010.
(4) Ibidem
(5) Per la precisione la visita di Leopoldo I° avvenne il 25 settembre 1660.
(6) Lo stesso citato nella lapide murata sulla chiesa dell’ ”Invenzione della Santa Croce” a Santa Croce.
(7) Ad essere precisi, il Kandler parla dei Templari nel territorio della Città di Trieste, in Istria e in Dalmazia. Nel suo “Cartolare di piani e carte dove si descrive la storia di Trieste e del suo territorio – Lo sviluppo storico della città di Trieste descritto in XXIV tavole topografiche“ (Cassa di Risparmio di Trieste 1975), inserì un carta con il probabile itinerario che i Cavalieri potrebbero (il condizionale è mio) aver fatto attraverso l’Isontino, il Carso, l’Istria, il Quarnaro, la Dalmazia fino in Grecia e a Bisanzio sul Bosforo. Ma la tappa di Grignano rimane un mera ipotesi.
(8) Non lontano da Santa Brigida sorge un agglomerato di vecchie case rustiche noto come San Colombano (Sv Kolomban in sloveno). Anche qui sorgeva un ospizio per pellegrini e viandanti. Curiosa la circostanza che vede entrambi gli insediamenti dedicati a santi irlandesi. Tra l’altro la, oggi diruta, chiesetta di San Colombano è l’unica in tutta l’Istria dedicata al celebre santo e monaco irlandese. Verso la fine del XIX secolo, Jacopo Cavalli registrò un modo di dire muggesano che suonava più o meno così “a San Columba’n a iera i piligrini e i lo ciamava El moint saint”. Secondo Dario Alberi il riferimento era al Monte San Michele che si trova nelle vicinanze a nord di San Colombano. Sempre il medesimo autore riporta nel suo libro “Istria” (Lint 2001) la notizia di un casuale ritrovamento avvenuti verso la fine del XX secolo in una casa della località indicata dal civico 46, che sembra confermare l’esistenza del l’ospizio per i pellegrini. Infatti tornarono alla luce i frammenti di un affresco del XIV secolo con un mezzo busto di un uomo con uno largo cappello e una sorta di bisaccia sulle spalle. In pratica potrebbe trattarsi della raffigurazione di uno dei pellegrini passati per gli hospitales della penisola muggesana. Alla luce di questa ipotesi, è altrettanto probabile che l’edificio in cui si trova il lacerto di affresco, abbia fatto parte del complesso conventuale collegato alla chiesetta e all’ospizio. Un’ipotesi al momento non suffragata da prove storiche, vuole che per un certo periodo a anche a San Colombano siano stati insediati anche i Templari.
(9) da Luigi Foscan “Guida ai castelli e ai luoghi fortificati del carso italiano e sloveno”, Edizioni Italo Svevo, 1996.)
(10) Il 24 gennaio 1240 il vescovo di Parenzo Adalpero donò ai monaci gerosolimitani Manfredo e Girardo la chiesa di San Giovanni in Prato detta anche “San Giovanni oltre mare”, con lo scopo dichiarato di aprire un hospitale per accudire pellegrini e viandanti. Il 9 aprile 1305, il vescovo parentino Bonifacio, la passò a fra’ Simone “Ord. Militiae Templi Priori S. marie in capit. Brolli de Venetijs”. Nella medesima data, sarebbero passati ai Templari anche il possedimento di Visinada e quello di San Michele al Leme.
(11) Il Monastero di San Michele in Leme, Kloštar in croato, è un complesso monumentale benedettino del X secolo, di cui oggi non rimangono che pochi ruderi, situato su uno dei pendii che costeggiano il Canale di Leme, in Istria. Non appena istituito, il monastero divenne il centro di una vasta tenuta che andò ampliandosi grazie ai costanti atti di donazione da parte dei nobili istriani. Ospite temporaneo del convento fu san Romualdo, che poi preferì trascorrere i suoi giorni da eremita nella vicina grotta, oggi a lui intitolata nonostante sia un sito di epoca molto precedente e custodisca reperti di vita preistorica. I Benedettini rimasero nel cenobio fino al XVII secolo, quando la tenuta divenne feudo; nella seconda metà del XIX secolo passò al demanio dell’Austria. Dell’intero complesso monastico si è conservata unicamente una piccola cappella paleocristiana del VI secolo con abside e volta a botte; al suo interno ci sono dei resti di dipinti murali, ad affresco con rappresentazioni figurative e iscrizioni. Accanto alla cappella sorge un’imponente chiesa monastica del XI secolo costruita in stile romanico, con abside semicircolare, nella quale sono custoditi gli dipinti murali, ad affresco, realizzati nello stesso periodo da un anonimo maestro benedettino della scuola ottoniana. Fra le vestigia del cenobio si riconoscono parti di mura e del chiostro, dove si trova una cisterna realizzata in stile romanico. La presenza Templare è attestata da una citazione riportata dal Kandler (Codex Diplomatico Istriano). Nel 1303 era Precettore tale fra’ Simone da Osimo.
(12) Fasana è un antichissimo borgo di pescatori e la chiesa, dedicata alla Madonna del Carmelo (o Santa Maria del Carmelo) si trova proprio al centro della ridente località. È chiamata “la Madoneta” (la piccola Madonna) in dialetto Istriano (che è simile al Veneto, ricordiamoci che l’Istria, dopo aver fatto parte per secoli della “X Regio Venetia et Istria” dell’Impero Romano è appartenuta la Serenissima Repubblica di Venezia sino al 1797, quando venne conquistata da Napoleone che poi, con il Trattato di Campoformido la cedette all’Austria). L’edificio sacro in stile romanico, con un campaniletto a vela, impreziosito da una piccola loggetta, risale al IX secolo. Nel corso dei secoli è passato di mano in mano, appartenendo ad Ordini diversi. Ricercatori italiani e croati da tempo ritengono di aver individuato nella piccola chiesa un possedimento dell’Ordine del Tempio. Un indizio sarebbero proprio le Croci Patenti rosse all’interno di una circonferenza di ugual colore affrescate all’interno della chiesetta.
(13) Secondo diverse pubblicazioni, a Pola, sin dal XIII secolo, i Templari gestivano la chiesa di Santa Felicita. La cui ubicazione è oggi sconosciuta. Alla chiesa era annesso un hospitale per i pellegrini. Nel 1312, dopo la soppressione dell’Ordine, la chiesa e l’hospitale passarono ai Giovanniti che cambiarono l’intitolazione della chiesa dedicandola a San Giovanni. Tra alterne vicende i Giovanniti, poi Cavalieri di Rodi e poi di Malta, la tennero sino al 1527.
(14) La chiesa santuario della “Beata Vergine dei Campi” o “Campo di Dio”, che svetta in cima ad una dolce ed amena collinetta a qualche chilometro dal paese di Visinada nell’Istria croata. Nei pressi passava una strada romana che da Trieste portava a Parenzo, come confermato da una colonna miliare ivi rinvenuta. Già nel XII secolo esisteva una chiesa con annesso un monastero dei Templari. Entrambi, dopo la fine dell’Ordine, passarono ai Giovanniti. Il cimitero sorge dove un tempo si apriva il chiostro. Lo stile gotico con cui si presenta attualmente la chiesa permette di datarla al XIV secolo. Sulla facciata, sotto il campanile a vela, sono incastonate quattro sculture in pietra calcarea che costituiscono un intrigante enigma in quanto non sono mai state interpretate in maniera convincente. Da sinistra verso destra si nota una specie di corona, uno scudo con stemma araldico (forse quello dei Grimani, famiglia feudataria della zona), una figura umana che regge una croce ed infine un oggetto che sembra una coppa (secondo altri un ostensorio, ma potrebbe anche rappresentare la cosiddetta “zampa d’oca”, con cui venivano contrassegnati luoghi posti lungo particolari vie di pellegrinaggio o iniziatiche o, addirittura, la runa “Algiz”. Sotto le sculture e sopra il portale gotico, ci osserva da secoli una testa zooantropomorfa. Ha orecchie di cane o di lupo, larghi baffi e la lingua in fuori. Porta una corona simile a quella del bassorilievo. L’ipotesi più plausibile è quella di trovarsi di fronte ad una immagine apotropaica. Alcuni studiosi ritengono che ritragga Attila. Che veniva descritto dalle popolazioni terrorizzate come una specie di demonio dai tratti animaleschi. L’essere dalle fattezze ibride potrebbe essere forse il “Bafometto”, l’idolo che i Templari furono accusati di adorare?
Sopra il portale ogivale in pietra è stata scolpita una “Croce Patente”. Mentre sul portone in legno e ferro battuto, risalente al XIX, sotto la sigla B.V.M. (Beata Vergine Maria) ed al centro della data, 1852, si scorge un “Fiore della Vita”. All’interno si può ammirare l’abside completamente decorato con affreschi tardo gotici (forse ritoccati nei secoli successivi) con gli “Evangelisti” ed il “Tetramorfo”, i “Dodici Apostoli”, scene dei racconti evangelici (anche “apocrifi”) ed altri Santi. Inoltre sulla parete destra della navata sono tornati alla luce altri affreschi (XIII secolo ?) con una “Trinità”, un “San Pietro” e ad altre figure non più leggibili. Un blocco lapideo che regge un costolone della volta dell’abside è stato scolpito a guisa di testa antropomorfa dalla cui bocca fuoriescono dei vegetali. Forse un “Green Man”? Notevole nella sua elegante semplicità un’acquasantiera in pietra, composta di un ampio catino ed una colonnina, recante la data del 1597.
Nel dicembre del 2008, io e mio fratello Luca, avemmo modo di visitare la chiesa in tutta tranquillità grazie alla squisita gentilezza e disponibilità del parroco Alojzije Baf.
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