RE ARTU’ ERA PUGLIESE?
REX ARTORIUS A BARI
di Giancarlo Pavat
Re Artù o meglio REX ARTORIUS (o ARTURUS, stando al mosaico pavimentale del Duomo di Otranto) non era inglese ma pugliese. Ovviamente è una provocazione anche se non è poi così peregrina. Si basa, infatti, su un dato di fatto, oggettivo, che chiunque recandosi in Puglia può verificare con i propri occhi.
Infatti una raffigurazione artistica del leggendario sovrano si trova proprio nel capoluogo pugliese; Bari. E tra l’altro nel luogo simbolo stesso della città, la Basilica di San Nicola.
Sul fianco sinistro rivolto a nord della chiesa, nella terza arcata, si apre la cosiddetta “Porta dei Leoni”. Nome suggestivo che evoca mirabili ed antichissimi monumenti; come la megalitica “Porta dei Leoni” (sarebbe meglio dire “delle leonesse”, effigiate nell’altorilievo posto sopra l’enorme monolite che funge da architrave) di Micene nel Peloponneso in Grecia o la “Porta dei Leoni” di un’altra città caratterizzata da massi giganteschi; Hattusa, capitale dell’Impero Ittita in Anatolia.
Quella della Basilica di San Nicola prende il nome dalla coppia di leoni stilofori del XII secolo. Realizzata dal magister Basilio, è decorata con bassorilievi sugli stipiti, sull’architrave e sull’archinvolto.
È una vera e propria esplosione di simbologie con animali fantastici, mitologici, mostruosi, strani personaggi ed esseri e ornamenti fitomorfi.
A cominciare dagli stessi Leoni che danno il nome alla Porta. Le due fiere stringono tra le zampe anteriori dei mostruosi serpenti o draghi, con cui, evidentemente stanno lottando. Addirittura il leone di sinistra viene morso dal mostruoso rettile.
Tra le interpretazioni che si possono dare a queste sculture, mi sento di proporne un paio. La prima, è quella, piuttosto classica, del Bene (il Leone è pure un Simbolo Cristico) in lotta contro il Male (“E l’immane dragone, il serpente antico, che ha nome demonio e Satana” come riportato dall’Apocalisse di Giovanni)
La seconda, invece, è più intrigante. Il leone è sempre un Simbolo positivo. Simbolo di regalità e Cristico assieme. Gesù, discendete dalla stirpe davidica, veniva chiamato il “Leone di Giuda”. È la figura del drago (o serpente) che cambia profondamente. Infatti, non sempre è visto come un allegoria del Male. E proprio dove uno meno se lo aspetterebbe; nel Nuovo Testamento. Infatti nei Vangeli canonici vi sono passi in cui il Serpente non è visto necessariamente in chiave negativa.
Leggiamo nel Vangelo di Matteo (10 – 16):
“Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi, siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe”.
È Gesù che sta parlando. In pratica nell’invitare i propri discepoli a predicare la Buona Novella, gli dice che devono “essere prudenti (nel senso di astuti) ) come serpenti”.
Inoltre, sempre Cristo, preannunciando il proprio supplizio, spiega che verrà inchiodato come il Serpente nel deserto. Il riferimento è all’episodio Veterotestamentario in cui Mosè fa innalzare, appunto, un serpente di bronzo. Il rettile ha un valore positivo in quanto consente agli Ebrei di guarire dai morsi di serpi vere, inviate da Jahvè per punirli per la loro ingratitudine. È lo stesso Jahvè, impietositosi, a suggerire a Mosè di realizzare il Serpente di bronzo e di imporlo ai sofferenti.
Quindi il serpente va visto ma come simbolo allegorico di conoscenze positive atte a sanare. D’altronde il concetto metaforico è abbastanza comprensibile. Il serpente secerne il veleno che può uccidere ma pure guarire. Inoltre, cambiando pelle, raffigura l’auspicio di rinascita e guarigione. Un Serpente inchiodato (per non dire crocifisso) su una “Croce del Tau”, viene utilizzato in ambito alchemico come allegoria della costante ricerca della “Grande Opera”, del percorso di accrescimento sia materiale che, soprattutto, spirituale dell’alchimista….dell’eterna ricerca della “Pietra Filosofale”, ovvero della (visto che siamo in tema arturinao) “Lapis Exillis”, la pietra che, secondo Wolfram von Eschenbach, autore del “Parzifal” sarebbe il Sacro Graal.
Tornando alla Porta dei Leoni barese, vediamo i draghi (o serpenti) afferrati dai felini. Riecheggia un topos iconografico molto particolare. Quello della creatura vivente o un essere antropomorfo che sembra essere ghermito dagli artigli di una fiera o di un aquila. Simili raffigurazioni sono innumerevoli, scolpite su capitelli, bassorilievi, pulpiti, frontoni di chiese e edifici medievali. Il significato è quello del fedele, dell’adepto o iniziato che si abbandona con fiducia ad una sapienzialità e volontà superiore che lo protegge ed innalza verso altri piani spirituali.
Quindi i due mostri andrebbero letti in questa maniera? Non solo. Il drago (o serpente) possono raffigurare anche la “conoscenza ermetica” e nel caso della Basilica di San Nicola, stanno mordendo i Leoni. Stanno trasmettendo loro una diversa “Conoscenza”. In uno scambio continuo e fluido di una sapienzialità esoterica che solo gli adepti possono sciogliere?
Vale la pena rileggere quanto ho scritto, assieme a Giancarlo Marovelli, nell’articolo “Dalle nebbie del Tempo riemerge il…Drago di Sonnino”, pubblicato proprio su questo sito a febbraio di quest’anno.
“In altre leggende, il Drago difende l’ingresso di meravigliosi paradisi cui si offre il più prezioso e fragile dei tesori: la Felicità. Esotericamente, il mito del drago significa la lotta dell’iniziato contro il Custode della soglia, e quindi la morte simbolica del guardiano drago, che permette l’accesso al Sancta sanctorum della conoscenza dei Grandi Iniziati. Il “Drago Iniziatico” a volte è stato simbolicamente attribuito all’immagine di Gesù Cristo, in quanto solamente con la sua morte, l’Umanità decaduta ha potuto avvicinarsi alla soglia della Vita Eterna. Nello stesso modo come il Drago Guardiano difende l’ingresso della vita beata, altrettanto il Cristo con la sua dottrina, la severa morale e i rigorosi comandamenti, rende difficile l’accesso al regno dei cieli. Soltanto l’effusione del sangue di drago permette a Sigfrido di avvicinarsi all’uccello, di attraversare il braciere, di risvegliare la
vergine. Solo l’effusione del sangue di Cristo permette il cammino verso la gloria dei cieli, mettendo a frutto i tesori della redenzione, di glorificazione e resurrezione che solo Gesù poteva donare all’umanità. La differenza sostanziale che il drago difende la propria vita in difesa del tesoro, il Cristo si offre per amore”.
Se ci si è dilungati un po’ sulle figure dei leoni stilofori è perché si trovano alla base della Porta. Quindi si trovano ancora sul piano materiale e da qui deve partire la personale “cerca” del fedele e/o dell’adepto. Ma , contemporaneamente, lo invitano ad innalzarsi verso il culmine della Porta stessa, costituito dall’archinvolto.
Ebbene, proprio in quest’ultimo possiamo ammirare scene e vicende del ciclo cavalleresco di Re Artù e dei suoi prodi cavalieri.
La Basilica, vero scrigno di misteri ed enigmatiche ed esoteriche simbologie, venne consacrata da papa Urbano II nel 1089, ma i bassorilievi dei portali sono del secolo successivo.
Ma l’aspetto più incredibile, e che sottende la provocazione posta all’inizio di questo breve lavoro, è che il bassorilievo dell’archivolto della “Porta dei Leoni” è antecedente cronologicamente di almeno un secolo alla diffusione nel nostro Paese del cosiddetto “Ciclo Bretone” o “Materia di Bretagna” (ovvero l’insieme dei racconti in prosa o rima delle gesta del Sovrano di Camelot e dei suoi cavalieri della Tavola Rotonda) che avvenne nel XIII secolo, dopo la definitiva sistemazione nei grandi romanzi in prosa.
L’esempio barese non è unico in Italia. Esistono altre raffigurazioni di Re Artù precedenti all’arrivo dei romanzi del “Ciclo Bretone”.
Ad esempio l’archinvolto della Basilica presenta una notevole e incredibile somiglianza con quello della “Porta della Peschiera” del Duomo di Modena, anch’esso con personaggi e scene del ciclo di Re Artù.
Ma la provocazione iniziale non si basava soltanto sull’archinvolto barese. Altrimenti invece che pugliese avremmo potuto dire emiliano.
Invece, per quanto riguarda la “Materia di Bretagna”, la Puglia batte l’Emilia due ad uno. E già. Infatti Re Artù o meglio REX ARTURUS compare pure in un’altra non meno straordinaria opera d’arte visibile in Terra di Puglia.
Si tratta dello stupefacente mosaico pavimentale della cattedrale di S. Maria Assunta a Otranto in provincia di Lecce.
Il mosaico, uno dei più grandi al mondo, venne realizzato tra il 1163 e il 1165 (all’epoca del re normanno Guglielmo II) da fra’ Pantalone, formatosi presso la “Schola” dell’Abbazia di S Nicola di Casole, di tradizione culturale greco-bizantina.
Le tematiche del mosaico sono profondamente simboliche, si va dall’Arbor Vitae alle storie della Creazione dell’Uomo. Ebbene, proprio tra le figure di Adamo ed Eva, da un lato, e di Caino e Abele, dall’altro, si vede un personaggio coronato a cavallo di una specie di capra con accanto la scritta “REX ARTURUS”.
Rimane un enigma il motivo per il quale fra’ Pantalone l’abbia ritratto (in maniera simbolica e certamente esoterica, tra l’altro), tenendo ben presente che pure in questo caso, venne realizzato ben prima che si conoscessero le opere letterarie della “Materia di Bretagna”.
È possibile, quindi, che l’origine del personaggio leggendario e letterario (non del personaggio storico che sta dietro la figura mitizzata del sovrano, di cui si occuperà a breve, su questo sito, l’amico ricercatore e scrittore Osvaldo Carigi) o perlomeno di alcune delle sue vicende, possa trovare radici in Puglia?
E se non in Puglia, più in generale nel Mezzogiorno d’Italia?
Ad esempio, come riportato in diversi libri del professor Domenico Rotundo, una inveterata tradizione individuerebbe in Calabria, e precisamente in Aspromonte, la vera dimora di REX ARTORIUS. Secondo alcuni ricercatori, i resti di tale favolosa residenza sarebbero i misteriosi monoliti di Nardodipace, sulle Serre calabresi (che per l’archeologia ufficiale non sono altro che formazioni rocciose naturali).
Ma non è finita.
Secondo gli “Otia Imperialia” del cronista Gervaso di Tilbury (vissuto nel XII secolo), nelle profondità del Mongibello, che non è altro che l’antico nome del vulcano Etna, si celerebbe uno splendido palazzo fatato. Qui avrebbe trovato rifugio Re Artù in persona, per guarire dalle mortali ferite riportate dopo la tremenda battaglia di Camlann, combattuta contro il nipote e traditore Mordred.
Gervasio afferma di riportare una leggenda appresa proprio nella Sicilia normanna nel 1190. Racconto ripreso tra l’altro, anche dall’anonimo creatore del “Floriant et Floriet” del 1250.
Questa leggenda ebbe una certa popolarità in Italia. Tanto che, sempre nel XIII secolo, un autore italiano di cui si ignora il vero nome, ma che si firma come “Gatto Lupesco”, compose un breve componimento, uno dei primi in volgare italiano, sulle gesta Re Artù e dei suoi cavalieri.
“Ke vegnamo de la montagna/
Ke l’omo appella Mongibello/
assai vi semo stati ad ostello/
per apparare ed invenire /
La veritade di nostro sire/
lo Re Artù k’avemo perduto“.