SARDEGNA, la magica isola di Angela Demontis

 

(Immagine di apertura: Tomba dei Giganti di S’Ena e Thomes a Dorgali – Nuoro)

SARDEGNA, LA MAGICA ISOLA DI ANGELA

Intervista ad Angela Demontis

di Osvaldo Carigi

Sardegna, una terra magica, percorsa da millenni da una forte energia cosmo-tellurica e culla di una civiltà megalitica, denominata nuragica, tra le più importanti del nostro passato. Terra magica abbiamo detto e quasi a sancire senza obiezione alcuna tale definizione eccoci in un luogo ancestrale, un’isola nell’Isola, dove una eterna, immutabile magia del tempo è ancora palpabile in ogni sua forma naturale o nei preziosi frutti, reali e leggendari, della grandiosa cultura locale: l’altopiano del Golgo.

(Immagine sopra: il Golgo, Angela Demontis davanti alla testa del Gigante)

Questa spettacolare formazione, commista di rocce calcaree e basaltiche, si staglia a circa 630 metri sul livello del mare, dominando il golfo di Arbatax e quello di Cala Gonone ed è sita sopra il paese di Baunei, in Ogliastra.

(Immagine sopra: Betile del Golgo)

Il nome Golgo, chiamato anche “Su Sterru”, è riferito alla più profonda voragine in Europa, che arriva alla profondità di circa 250 metri, dove, secondo alcuni racconti locali, venivano gettati i vecchi secondo macabri rituali. Da questo incredibile altopiano parte il nostro viaggio attraverso le tante meraviglie, ancora presenti, che gli antichi abitanti dell’isola seppero costruire a testimonianza del loro sapere e della loro visione magico-metafisica della vita che, come vedremo, esportarono anche in altre terre attigue.

Guida preziosissima di questo nostro lungo, e, spero, interessante, per chi ci leggerà, percorso attraverso la storia dell’antica Sardegna profonda conoscitrice di questi luoghi, è la bella poliedrica studiosa locale Angela Demontis che saluto e alla quale chiedo subito il significato di “Su Sterru” e poi di raccontarci qualche particolare in più su quella succitata terribile leggenda dei vecchi gettati nella voragine.

(Immagine sopra: Angela Demontis arciera nuragica dentro il cortile del Nuraghe di Santu Antine – foto Reinvudo)

Angela Demontis: Grazie Osvaldo. Su Sterru significa “il buco”, la voragine, ed era un luogo ovviamente molto pericoloso sia per le persone che per gli animali che potevano caderci dentro. La sua origine fu legata ad una leggenda: nei tempi antichi viveva sul Golgo un mostro, una specie di serpente-drago chiamato Scultone. Era il custode dell’altopiano ed era capace di pietrificare con lo sguardo, pare che tiranneggiasse sulle popolazioni della zona chiedendo in pasto delle ragazze vergini (come in tutte le leggende coi mostri) in cambio della pace. Finché un giorno capitò in quelle zone San Pietro a cui si rivolsero le persone spiegandogli la situazione e chiesero aiuto al santo. San Pietro salì allora sull’altopiano del Golgo affrontando lo Scultone. Il santo per non essere pietrificato usò uno specchietto per non guardare direttamente il mostro (tipo Perseo con Medusa), lo sguardo venne rimandato al mittente pietrificando la creatura. Allora il santo lo afferrò per la coda e lo batté talmente forte in terra da provocare la famosa voragine che inghiottì la creatura. La gente contenta per la eliminazione, eresse una chiesa in onore di San Pietro, splendida chiesetta ancora visibile sull’altopiano.

(Immagine sopra: corridoio interno del Nuraghe di Santu Antine)

La voragine è legata anche ad un’altra leggenda, dove pare che, secondo antichissime usanze, venissero gettati i vecchi dei villaggi ormai divenuti inutili per la comunità. Cosa comunque non provata scientificamente, e poco probabile visto anche il grande rispetto per gli anziani che in Sardegna c’è sempre stato. Tanto che i vecchi vengono chiamati ancora “tziu” e “tzia” (zio e zia) da tutti, anche dai non parenti. Esempio di come fossero unite le comunità antiche nell’Isola, come grandi famiglie allargate.

(Immagine sopra: Angela Demontis arciera nuragica a difesa del Nuraghe di Santu Antine – foto Reinvudo)

Osvaldo Carigi: Angela, in sede di preparazione a questa nostra intervista mi facesti notare che l’altipiano era presidiato in epoca nuragica poiché ricco d’acqua, lo testimoniano i bei nuraghi ancora in piedi a custodire il luogo. Ecco, proprio questa importante particolarità del Golgo ci permette di parlare dei maggiori monumenti sardi. Iniziamo dall’origine etimologica del loro nome. Come si legge in “Prima degli Etruschi” di Giovanni Feo, secondo il padre gesuita Antonio Bresciani, la parola ‘nuraghe’corrisponderebbe a “fiamma ardente” (nur-aghs) in riferimento ad un particolare aspetto del culto del fuoco. In sostanza, “sulla sommità dei nuraghi sembra venissero accesi dei fuochi per fini pratici e rituali”. Qual è la tua opinione nel merito?

(Immagine sopra: Angela Demontis arciera al Nuraghe di Santu Antine – foto Reinvudo)

Angela Demontis: I nuraghi, incredibili costruzioni in pietra a secco, furono costruiti nel II millennio, a partire circa dal 1800 a.C. fino al 1100 a.C. Nuraghe/nuraxi (con molte varianti) è sempre stato il nome identificativo di questo tipo di edifici in pietra, unici al mondo. Sull’origine del nome ci sono varie ipotesi, certo è che la parola Nuraghe non sia di origine latina né spagnola, molto probabilmente è una parola della antica lingua nuragica.  Secondo il Prof. Giovanni Lilliu la parola è derivata dalla radice “nur”, largamente diffusa nel bacino del Mediterraneo e in Anatolia, che significa “mucchio di pietre” o anche “cavità”, in questo caso “torre cava”. Invece, secondo l’archeologo Giovanni Ugas, nuraghe deriverebbe da Norax/Norace, l’eroe iberico-balaro che arrivò con le sue genti in Sardegna.

Sul fatto che si potesse accendere un fuoco sulla sommità mi sembra probabile, con i dovuti accorgimenti, perché poteva servire come segnalazione di eventuali pericoli alle altre comunità. Il fumo di giorno e la fiamma di notte potevano essere avvistate dai vari nuraghi monotorre (che presidiavano il territorio) e il “segnale” ritrasmesso in modo che arrivasse a coprire vaste aree.

(Immagine sopra: il Golgo,  l’antica chiesa di San Pietro, eretta per ringraziare il Santo che aveva liberato la zona dalla mortifera presenza del mostruoso Scultone)

Osvaldo Carigi: Angela, nel Reader’s Digest si legge “Il fatto stupefacente è che i nuraghi sono meno numerosi lungo la costa da cui era più probabile giungessero i nemici, che nell’entroterra”. Se consideriamo il nuraghe anche come una struttura difensiva, faccio mia la domanda posta dall’archeologo ed esploratore David Hatcher Childress: È possibile che i nuraghi fossero stati eretti in un’epoca in cui la linea costiera non corrispondeva a quella attuale?” (1)

(1) da “Le città perdute di Atlantide. Europa antica e Mediterraneo” – pag.202.

(Immagine sopra: il Golgo, la scala di ginepro).

Angela Demontis: Forse i nuraghi sembrano meno numerosi sulla costa perché sopra sono state costruite torri di vedetta da chi arrivò dopo sull’Isola. Ne è un esempio la torre che si staglia su Tharros, nella penisola del Sinis, costruita su fondamenta nuragiche. Chiaramente si parla di un’isola e quindi i potenziali pericoli che venivano dal mare dovevano essere tenuti sotto controllo da molti nuraghi d’avvistamento. Molto probabilmente avevano anche la funzione di punto di riferimento diurno e notturno, come gli odierni fari, per segnalare la giusta direzione d’ingresso alle cale e ai porti riparati dal vento forte…e sappiamo quanto sia devastante il maestrale in Sardegna! Tanto che l’isola conosciuta col nome di Mal di Ventre in realtà era Malu Entu (vento cattivo), infatti ne sono tristi testimoni i numerosi naufragi di vascelli successi in varie epoche. Sicuramente le linee costiere erano diverse anche in epoca nuragica, abbiamo a testimonianza le città di Tharros e Nora parzialmente sommerse e altre strutture che via via vengono ritrovate dai nostri bravissimi archeologi subacquei

Osvaldo Carigi: Angela, hai nominato Norax e allora ci spostiamo a Nora, nel golfo di Cagliari, edificata, per prima in Sardegna, secondo una tradizione, proprio dal predetto personaggio, re di Tartesso, figlio di Hermes e di Erizia. Leggenda a parte, l’origine dei sardi andrebbe ricercata fuori dall’isola: Spagna, isole Baleari e la Creta minoica le indiziate ad essere le terre d’origine di un “popolo del mare” che dopo lunghe navigazioni e approdi lungo la rotta dei metalli si insediò in Sardegna dando inizio ad una civiltà” megalitica” che per l’impulso determinante che dette alla vita civilizzata in Italia è senz’altro da collocare sul gradino più alto del podio del nostro arcaico passato. In definitiva, chi afferma che la civiltà sarda sia stata “la prima vera civiltà che si sviluppò in Italia” mi trova perfettamente d’accordo. Spero che anche la Demontis lo sia.

Angela Demontis: Mi trovi perfettamente d’accordo, e non solo per quanto riguarda il panorama delle culture “italiche”. La civiltà nuragica pare sia fra le più antiche del bacino del mediterraneo, vanta numerosi primati tra i quali la coltivazione del melone e la fabbricazione della birra, fra i primi a produrre il vino, e fabbricarono le spade più antiche fatte in rame arsenicale e di forma triangolare (S.Iroxi, circa XVII sec. a.C.). E immagina che quando furono erette le prime torri nuragiche, alcune alte quasi 30 metri (nursgherri di Santu Antine), erano gli edifici più alti nel mediterraneo secondi solo alle piramidi egizie.  Capolavori in pietra a secco dotati di doppio muro con scala elicoidale interna e 3 camere sovrapposte chiuse da cupola aggettante a “tholos”, la più alta vanta quasi 12 metri (nuraghe di Is Paras).

Avevano già le canalizzazioni delle acque e veri acquedotti (Gremanu) e strutture tipo sauna (Sa Sedda e Sos Carros), pozzi e fonti protette con maestria ed eleganza da edifici e scalinate perfette in pietra (Su Tempiesu, S. Cristina, Romanzesu). Non solo si distinguevano in maestria nell’uso di varie tecniche ma anche nel gusto estetico che denota eleganza.

In un periodo in cui nella penisola italiana le comunità per lo più vivevano in capanne e palafitte.

Sulla origine del nuraghe ci sono molte ipotesi, e in tanti se ne attribuirono il “copyright”, infatti secondo una leggenda pare fosse stato creato da Dedalo. 

Ma in realtà la torre nuragica fu ideata e creata dagli antichi Sardi, e la Sardegna è la matrice d’origine.  Infatti qui ne sono stati censiti circa 8.000, ma c’è chi dice siano più di 10.000, ed esistono i più antichi chiamati “protonuraghi” che testimoniano nascita ed evoluzione di questa straordinaria tecnica costruttiva. 

(Immagine sopra: Nuraghe di Santu Antine a Torralba)

Osvaldo Carigi: Durante una pausa tra una domanda e una risposta, ti ho posto un quesito basilare riguardante forse i più famosi abitanti dell’antica Sardegna: gli Shardana. Questi e i nuragici, secondo una corrente di pensiero, sarebbero stati lo stesso popolo, mentre altri studiosi affermano che sarebbero giunti in Sardegna, forse dall’Oriente, non senza resistenza da parte degli autoctoni. Di sicuro, non sono loro i costruttori dei nuraghi, essendo a mio modesto parere un popolo essenzialmente guerriero, oltre che grandi navigatori. Alcune teorie mettono, ad esempio, in risalto l’aggressiva attività degli Shardana nel vicino Oriente, attività che cessò, guarda caso, proprio in concomitanza del loro arrivo nell’isola. 

Angela Demontis: Hai toccato una questione “delicata”: i famosi Shardana, o Sherden, nominati dagli antichi Egizi. Scolpiti sul bassorilievo di Abu Simbel, erano la Guardia Scelta di Ramesse II durante la battaglia di Qadesh, e illustrati insieme ai Peleset-Philistim nel bassorilievo di Medinet Habu mentre conducono una battaglia navale contro Ramses III. L’incognita sul loro nome e loro provenienza è ancora aperta, molto dibattuta secondo diverse correnti di pensiero dagli accademici.

Posso citare le ipotesi secondo le due “fazioni” più serie sull’argomento. Secondo l’archeologo Giovanni Ugas gli Shardana sarebbero proprio i nuragici e lo afferma sulla base delle spade triangolari che portano gli Shardana ritratti in Egitto (oltre a scudo rotondo e elmo cornuto), spade uguali nella forma a quelle ritrovate qui nell’Isola nel sito di S. Iroxi. E sulla base della iscrizione in caratteri fenici sulla stele trovata a Nora che in una riga riporta B-SHRDN, nominando l’Isola col nome Sardegna (patria dei Shardana).

Invece secondo il Prof. Ercole Contu nuragici e shardana erano due popolazioni differenti, i primi costruttori dei nuraghi e i secondi che arrivano successivamente nell’isola lasciando impronta del nome. Contu mette in rilievo discrepanze su date e altri dettagli importanti. 

(Immagine sopra: Angela Demontis in panni nuragici al Nuraghe di Santu Antine – foto Reinvudo)

Osvaldo Carigi: Angela, hai giustamente citato le ipotesi di due illustri studiosi dell’antica civiltà sarda in risposta alla mia domanda sull’identikit storico degli Shardana, ma di sicuro il lettore (e il sottoscritto ovvio) vorrà sapere anche un tuo parere circa le succitate teorie, ovvero secondo Angela Demontis chi aveva ragione tra l’archeologo Giovanni Ugas e il Prof. Ercole Contu? 

Angela Demontis: Il mio personale parere è che avesse ragione il compianto Prof. Contu, la penso come lui. Ho molti dubbi sul fatto di identificare Nuragici e Shardana come lo stesso popolo. Molte cose non combaciano, anzi, e sto lavorando per cercare risposte. Sono d’accordo anche su ciò che pensa Massimo Pittau, linguista e studioso di lingua etrusca e protosarda, che assimila i Nuragici ai Tyrsenoi-Tirreni. La radice tyr=torre, cioè tyrsenoi “i costruttori di torri”.  La teoria voleva che i Tyrsenoi fossero gli Etruschi, ma gli Etruschi non costruivano torri…i nuragici invece si!

(Immagine sopra: Nuraghe di Santa Barbara a Macomer)

Osvaldo Carigi: Oltre che costruttori di torri (e altre meraviglie che vedremo in seguito) i nuragici da bravi isolani erano anche straordinari marinai e dappertutto nel mediterraneo venivano esportati prodotti locali, ma…non solo. In cima ad una isolata altura posta nell’entroterra israeliano, nella località di El Ahwat, una equipe di archeologi italiani ed israeliani ha riportato alla luce un complesso di nuraghi affini a quelli sardi. Vennero esportate, quindi, anche tecniche costruttive tipiche dell’antica civiltà sarda? 

Angela Demontis: Premetto che riguardo il sito di El Ahwat so molto poco. So che gli scavi furono iniziati dall’archeologo Zertal e che ci fu una campagna di scavi condotta in collaborazione con il nostro archeologo Giovanni Ugas. Zertal mise in evidenza la somiglianza delle costruzioni trovate nel sito con quelle di epoca nuragica, credo del 1200 a.C. Non mi pare si parli di un gruppo di nuraghi, sembrerebbe piuttosto una cittadella fortificata cinta da muraglioni costruiti in pietra a secco con grandi massi. Zertal e Ugas pensano fosse un avamposto dei Shardana in epoca ramesside. Quello che dici è vero, anche i nuragici erano navigatori…per forza dovevano esserlo. Si viveva in un Isola e per arrivarci, o andare in altre terre, lo si poteva fare solo per via di mare e le numerose navicelle in bronzo prodotte in epoca nuragica (alcune ritrovate anche in siti italici) ci fanno capire quanto fosse importante per loro il rapporto col mare. Sicuramente esportavano molte merci importanti come il sale, rame, tessuti di lana e lino, ossidiana, cibi prelibati, vino e birra, e molto probabilmente anche la preziosissima Porpora. Allora i tessuti venivano tinti con piante tintorie e altre sostanze. Contrariamente a quel che si pensa il color porpora non è rosso bensì è Viola. Era colore più raro e costoso da ottenere perché veniva estratto da un piccolo mollusco chiamato murice.  Ogni mollusco produce una gocciolina di sostanza colorante, immaginiamoci quante gocce potessero occorrere per tingere un abito o un mantello!  Erano capi degni di Regine e Re.

 

(Immagine sopra: il Golgo, Su Sterru)

Osvaldo Carigi: Oltre i nuraghi, l’antica civiltà sarda ci ha lasciato in eredità altre vestigia davvero uniche nel loro genere come per esempio la ziggurat di Monte D’Accoddi. La sua forma, infatti, viene accostata a quella delle famose costruzioni mesopotamiche, specificatamente alla ziggurat di Anu, a Uruk, secondo alcuni studi quasi coeva al monumento sardo. Narra una leggenda che l’idea di una simile costruzione, unica, è bene sottolinearlo, nel suo genere nel Mediterraneo occidentale la si deve ad un re mesopotamico fuggito dalla sua terra per motivi imprecisati ed approdato in terra sarda con tutta la sua tribù. Angela, il raffronto succitato deve considerarsi del tutto generico, non indicativo di contatti diretti oppure la presenza di mesopotamici nell’antica Sardegna può essere presa in seria considerazione, ergo la leggenda potrebbe avere, come ogni leggenda che si rispetti, in background di verità storica?  

Angela Demontis: Chissà come andò davvero, purtroppo possiamo fare solo supposizioni. Può essere che genti mesopotamiche, antichi esploratori, siano approdati in Sardegna mescolandosi alle popolazioni locali, ed eretto quel monumento che rispecchiava i loro antichi culti religiosi: la Montagna Sacra dove Cielo e Terra si Uniscono. E dove loro studiavano le stelle. 

(Immagine sopra: Angela Demontis in panni nuragici nelle domus di Villa Sant’Antonio – foto Reinvudo)

Il monumento di Monte d’Accoddi è prenuragico, costruito verso la seconda metà del IV millennio a.C. Ma il sito era già ampiamente frequentato dal Neolitico medio da popolazioni della Cultura di Ozieri che in quei dintorni costruirono capanne, dolmen, domus de janas, e lavorarono mirabilmente la pietra per creare menhir, enormi lastre e grandi sfere.

La ziggurat sarda è davvero unica nel suo genere, non solo in Europa ma anche nel bacino del Mediterraneo.  La parte più antica venne costruita proprio dalle genti della Cultura di Ozieri, che elevarono una prima rampa insieme ad un basamento a forma di tronco di piramide. Sulla piattaforma c’era una stanza, che fu chiamata Tempio Rosso perché le pareti erano colorate con ocra rossa (vennero trovate anche tracce di nero e giallo). Poi nel corso dei secoli ci furono incendi, vari rimaneggiamenti della struttura del monumento e venne edificato il tempio a gradoni che conosciamo oggi. Questa “veste” del monumento fu eretta dalla Cultura di Abealzu-Filigosa e continuò ad essere utilizzato fino al Bronzo medio (circa 1800 a.C).

Osvaldo Carigi: Angela, in “camera caritatis” mi hai detto che da Monte D’Accoddi “in quel periodo vedevano la croce del sud!”.

Questa famosa ziggurat era dunque anche un osservatorio astronomico?

Angela Demontis: Esatto, questo monumento che fu scavato da Ercole Contu, poteva essere un osservatorio astronomico esattamente come le sue “sorelle” ziggurat mesopotamiche.

Circa 5000 anni fa nel settore sud del cielo di Sardegna era visibile proprio la costellazione della Croce del Sud, ora finita sotto l’orizzonte a causa della precessione degli equinozi.

(Immagine sopra: la Costellazione della Croce del Sud, oggi visibile solo dall’Emisfero australe – foto Wikipedia)

Quindi chi costruì il monumento di Monte d’Accoddi, secondo il fisico Gian Nicola Cabizza e altri studiosi, poteva ammirare e studiare questa emblematica costellazione.

Una costellazione a Croce che rappresentava la forma della Dea Madre, infatti statuette della Dea risalenti a quel periodo sono fatte in forma di semplice croce, talvolta con viso e seni appena accennati. 

Una Dea benevola con le braccia aperte.

Osvaldo Carigi: Hai citato le domus de janas, altra tipologia monumentale dell’antica civiltà sarda davvero sorprendente. “Con questo nome si designano migliaia di sepolcri rupestri, conosciuti come dimore di “fate” o di “streghe”. Una simile denominazione popolare richiama luoghi un tempo dedicati al culto femminile della Madre Terra. Da qui l’uso di considerarli dimore di creature sovrannaturali e femminili” (1). (1) Tratto da “Prima degli etruschi” di Giovanni Feo.

Angela Demontis: Le Domus de Janas sono strutture scavate nella roccia che venivano adibite a sepolture, gli antichi sardi iniziarono a scavarle a partire dal IV millennio a.C.

Alcune sono semplici, formate da una sola stanza, altre sono molto complesse con più camere e addirittura potevano essere monumentali, scolpite all’interno in modo da rappresentare le case dei vivi, come nel sito di San Andrea Priu vicino a Bonorva.Molte, internamente, hanno fregi scolpiti in forma di “porte” sormontate da corna e potevano essere anche riccamente colorate in rosso, bianco, giallo e nero con vari motivi decorativi geometrici. Tutti colori naturali che gli Antichi ricavavano dai minerali. Lo studio completo sulle domus de janas della Sardegna lo ha condotto e pubblicato la archeologa Prof.ssa Giuseppa Tanda, consiglio di leggere i suoi interessanti libri per approfondire sull’argomento.

(Immagine sopra: Angela Demontis davanti alla Domus de Janas di Villa Sant’Antonio – foto N. Cuccu)

Osvaldo Carigi: La parola “Janas” la si ritrova in tutto il Mediterraneo, ma qual’è la sua remota etimologia?

Angela Demontis: Riguardo al nome Domus de Janas (case delle Fate), è un epiteto associato da sempre qui in Sardegna a queste strutture. Ci sono molte leggende in cui vengono narrate le gesta delle Janas, che sono creature benevole custodi di luoghi, diventano dispettose se le si offende o le si fa arrabbiare. Si dice ancora adesso che le Janas abitino quei luoghi e che la notte si possano vedere le fiammelle accese dalle fate sarde. Persino in lingua catalana “Jana” è il nome associato alla fata che abita nelle caverne o nelle antiche fonti.  Secondo alcuni potrebbe derivare dalla divinità Diana, ma penso siano due varianti del nome di una stessa entità mitologica comune associata alla Dea Madre, forse proprio il suo nome? Chissà… È anche vero che Inanna, Anna, Yanna per i popoli mesopotamici rappresentava la Dea primigenia, quindi un essere soprannaturale legato alla Natura e sua rigenerazione. Jana è un nome diffusissimo ancora oggi nelle culture europee nordiche, dell’est Europa fino ad arrivare alla Russia.

(Immagine sopra : la Domus de Janas di Villa Sant’Antonio)

Osvaldo Carigi: Oggi si contano 8.000 nuraghi ma si stima che ve ne fossero almeno 12.000. Ci sono 700 Tombe di Giganti, ma anche queste erano molte di più. Ci sono 50 pozzi sacri senza contare i templi, i dolmen, i menhir, le necropoli, i villaggi, le fonti sacre e le pietre istoriate. Angela, come spiegare questa che sembra una specie di furia costruttrice? ”

Angela Demontis: Bella domanda, in effetti la Sardegna rappresenta un unicum in Europa, forse anche nel mondo, per la densità di strutture archeologiche presenti. L’Isola fu frequentata da epoche molto remote, le più antiche tracce umane pare che risalgano al Paleolitico inferiore (tra i 500.000 e i 100.000 anni fa).  E via via i primi esseri umani lasciarono tracce della loro permanenza, come anche l’Homo Sapiens (circa 20.000 anni fa) segnando le linee temporali che noi uomini moderni distinguiamo in Mesolitico, Neolitico, Età del Rame, del Bronzo del Ferro, ecc.

Questa isola era già in antichità un importante punto dove si fermavano i naviganti, era ricchissima di acqua e risorse che si potevano esportare col commercio. Forse ritenuta per questo “isola sacra” che in effetti salvava la vita a tutti quelli che riuscivano a superare i perigliosi flutti. Ogni Cultura presente nell’Isola impiantò i propri insediamenti portando anche le proprie credenze religiose e i diversi tipi di sepolture, in un vasto arco di tempo testimone di questa cronologia. 

Oggi noi giustamente ci stupiamo davanti a tale densità di costruzioni e sepolture, fortunatamente conservate, e ci poniamo queste domande perché non ne capiamo bene il perché. 

Ma per gli Antichi era normale innalzare monumenti, essere un tutt’uno con la Natura e parlare con le stelle.

(Immagine sopra: Angela Demontis all’interno del Nuraghe di Santu Antine a Torralba)

Osvaldo Carigi: Angela, parliamo ora delle tombe di Giganti, notoriamente conosciuti come monumento funerario ma in “Phisica” (IV,11,1) di Aristotele si legge che: “Certe persone afflitte da infermità se ne andavano presso le tombe degli eroi in Sardegna e lì si curavano; costoro quindi giacevano costì per dormire per una durata di cinque giorni, dopodiché, svegliandosi ritenevano che il momento (in cui si destavano) fosse lo stesso in cui si erano adagiati presso i loro eroi”. Angela Demontis: Esatto, pare che in antichità per curare persone con disturbi psicologici, o altri problemi, o per avere risposte a dei quesiti, gli si facesse seguire una “terapia” molto particolare.

Tramite l’ausilio di infusi di erbe narcotiche si induceva il paziente ad un sonno prolungato, infatti si parla di più giorni di seguito, nel quale egli dormiva nei pressi “delle tombe degli eroi”. Questa pratica si chiamava Incubazione. Al suo risveglio veniva interrogato su ciò che aveva visto in sogno, su ciò che gli avevano comunicato gli Antenati. Analizzando questi messaggi veniva dato il responso o la cura. Molto probabilmente erano rituali condotti da donne sciamane esperte nella conoscenza delle erbe. In effetti si induceva tramite narcosi un annullamento del tempo, dando la possibilità al paziente di entrare in quella dimensione parallela dove stavano gli antenati morti.

Lo storico delle religioni Raffaele Pettazzoni ne parla nei suoi scritti, così come l’antropologa Dolores Turchi, riportando che era una pratica protosarda divenuta poi leggendaria.

Queste pratiche dell’antichità vennero citate anche da Erodoto e da Simplicio che ne da una interpretazione dal punto di vista greco. Disse che gli eroi sardi sarebbero stati i figli di Herakles che, approdati in Sardegna con Iolao per colonizzarla, morirono poi sul posto e vennero venerati.

Simplicio aggiunge anche un particolare molto interessante, dice  dei loro corpi che “sono rimasti intatti dalla decomposizione, come se fossero addormentati”. 

Osvaldo Carigi: Ancora oggi so di significativi risultati ottenuti a seguito di sedute terapiche nelle Tombe di Giganti. 

Angela Demontis: Per quanto riguarda le sessioni moderne di terapie presso le tombe dei giganti so poco, non credo comunque che siano neanche lontanamente riconducibili alle vere pratiche sciamaniche curative del passato. Non ci sono più le sciamane o sciamani di una volta e ormai abbiamo perso completamente il vero contatto con Madre Natura.

Osvaldo Carigi: Altro esempio significativo di architettura megalitica dell’antica Sardegna sono i pozzi sacri. Se ne contano almeno cinquanta in tutta l’isola ma si presume che il loro numero doveva originariamente essere ben più alto. Il pozzo sacro era l’emblema, la sublimazione del culto delle acque, specificatamente quelle sotterranee, quali elementi di natura divina, curativa. Non dimentichiamo che questa tipologia di monumento, come gli altri monumenti isolani, vennero eretti su precisi punti dove la terra emana un forte, vibrante magnetismo vibrante. Di sicuro il più conosciuto di questi monumenti è quello di S. Cristina di Paulilatino (Oristano). Le sue grandi e straordinariamente levigate lastre di pietra destano ammirazione nei visitatori a tal punto da crederlo di recente costruzione! Ho letto che recenti studi hanno dimostrato che i pozzi sacri servivano anche per rituali notturni dove lo specchio d’acqua sotterranea veniva magnetizzato dalla luce lunare. 

Angela Demontis: Le costruzioni chiamate pozzi sacri o fonti sacre sono veramente tante in Sardegna, dimostrano quanto fosse importante per quelle popolazioni l’acqua e la sua preservazione.

Venivano edificati con estrema cura e maestria con pietre perfettamente squadrate e lavorate. 

Molti di quelli che vediamo oggi sono “nudi”, cioè mancanti della sovrastante copertura in pietra che serviva a segnalare la presenza del pozzo-fonte oltre che a custodirla.

Infatti anche il famoso pozzo di Santa Cristina (Paulilatino) aveva in origine un edificio sovrastante, quello che noi ora vediamo è frutto del restauro operato in epoca recente da chi scavò e rimise “a posto” la scalinata. L’acqua doveva essere protetta in modo che scorresse pura e non venisse sporcata. Hanno tutti più o meno lo stesso schema:  atrio con sedili in pietra, nicchiette nelle pareti, edificio di copertura a livello del terreno, scala che va verso il basso, soffitto a piattabanda degradante (soffitto scalare), camera rotonda del pozzo con copertura a tholos.

Alcuni edifici sovrastanti il pozzo o fonte erano anche coperti dal terreno nella parte posteriore, tipo collinetta, come nella fonte di Lumarzu (Bonorva) o nel pozzo di Is Pirois (Villaputzu) che sulla sua sommità presenta anche addirittura un piccolo nuraghe! Notevole la fonte di Su Tempiesu a Orune che ha un edificio formato da due alti spioventi in pietre perfettamente scolpite, e tra gli spioventi fanno bella figura due archi a tutto sesto paralleli (e stiamo parlando del XIII a.C), e in cima nel colmo del tetto vi erano infisse ben 20 lame di spade in bronzo!

(Immagine sopra: l’incredibile struttura megalitica della Fonte sacra di Su Tempiesu a Orune.  In primo piano la riproduzione di una delle tante “Spade nella roccia” sarde rinvenute in diversi siti archeologici )

Il pozzo di Perfugas, in pietra bianca, presenta delle bugne mammillari in alcune pietre della struttura, forse decorative o forse funzionali.

Eccezionale è per profondità il pozzo di Cuccuru Nuraxi (Settimo S. Pietro), il cui ingresso stava dento una delle torri del nuraghe omonimo, che presenta un condotto foderato di pietre ben scolpite fino a 12 metri. Poi si restringe e scende sottoterra ancora per circa 10 metri in uno stretto cunicolo scavato nella roccia. In totale 22 metri di profondità! Che i nuragici avessero cura dell’acqua e fossero maestri anche nelle canalizzazioni lo dimostra il sito di Gremanu, dove si può vedere un sofisticato esempio di canalizzazione delle acque in forma di acquedotto.

I pozzi e le fonti erano dunque coperti in origine, quindi forse non era possibile che la luna o il sole potessero entrare dall’alto e specchiarsi nell’acqua. A mio parere è molto più interessante il fatto che venisse associata l’acqua al culto della spada.  Come ho prima accennato, a Su Tempiesu vennero trovate 20 lame di spade infisse sulla pietra del colmo del tetto e anche alcuni bronzetti che venivano infissi nelle pietre della fonte. Che riti facevano i nuragici? La domanda sorge spontanea: la leggenda della spada nella roccia è forse nata in Sardegna?

(Immagine sopra: particolare della copia della   “Spada nella roccia” di Su Tempiesu )

Osvaldo Carigi: Risale ad un’epoca molto antica, prima età dei metalli, l’usanza di conficcare un’arma bianca nella roccia. Franco Cardini ci dice che “Le radici della sacralità della spada sono antiche, profonde. Già Erodoto, parlando degli Sciti (Ammiano Marcellino avrebbe più tardi attribuito analoghe usanze ai Sarmati) aveva ricordato che la loro usanza era di piantare una spada sul culmine dei tumuli funerari e lì celebrare riti sacrificali”. (1).  “L’usanza di piantare armi nella roccia, per fini di magia rituale, fu già praticata in Etruria, due millenni prima che una spada templare fosse conficcata a S. Galgano” (2). Angela, il rituale della spada nella roccia nell’antica Sardegna è di origine autoctona? 

(1) Franco Gardini “S. Galgano e la spada nella roccia”. 

(2) Giovanni Feo “Geografia sacra” 

(Immagine sopra: la stupefacente è autentica “Spada nella roccia” di San Galgano all’interno dell’Eremo di Montesiepi in Maremma – foto G. Pavat da www.ilpuntosulmistero.it)

Angela Demontis: Potrebbe essere che gli Etruschi, visti gli scambi e i contatti coi Nuragici nella prima età del Ferro e i matrimoni con principesse nuragiche, possano aver “ereditato” quella usanza dalla Sardegna. Non so quantitativamente come fosse diffuso in Etruria, ma in Sardegna si producevano centinaia e centinaia di lame di spade in bronzo o rame destinate ad essere infisse in blocchi di roccia, proprio “la vera spada nella roccia”. I blocchi con le lame erano posizionati in luoghi di culto, spesso associati all’acqua come nel maestoso Su Tempiesu di Orune. E mi chiedo come mai i nuragici facessero tanta fatica per forare i blocchi di pietra scolpiti e in quei fori piantassero in verticale lame di metallo e bronzetti antropomorfi fissandoli con colate di piombo.  Un “rituale” molto complesso che non aveva eguali in altre popolazioni.

Osvaldo Carigi: Angela, siamo giunti quasi alla fine di questo nostro viaggio attraverso le meraviglie della civiltà nuragica e non posso davvero esimermi dal chiederti di parlarci dell’Area Archeologica “Su Nuraxi” di Barumini, scoperta dall’archeologo Giovanni Lilliu e patrimonio Mondiale Unesco dal 1997. 

Angela Demontis: Quello di Barumini è forse il nuraghe più famoso della Sardegna. Chiamato anche Su Nuraxi, fu eretto tra il XVII e il XIII sec. a.C.  Costruito mirabilmente con blocchi di basalto che nella parte bassa sono apparentemente non sbozzati, per poi divenire sempre più finemente lavorati andando verso la parte alta del mastio centrale.  Aveva tre camere sovrapposte con copertura a tholos e scala elicoidale nel doppio muro che portava ai vari livelli superiori.  Nella sommità vi era un ballatoio, probabilmente in legno, andato perduto. Su Nuraxi ha diversi livelli costruttivi, successivamente alla torre centrale vennero costruite quattro torri collegate da bastioni, formando un cortile interno dotato di pozzo.  Poi nella età del Ferro il complesso venne ulteriormente circondato da una cinta di bastioni e cinque torri.  Tutto intorno un grande villaggio.

Situato nella piana della Marmilla, Su Nuraxi era in una posizione strategica di controllo di un territorio molto fertile.  Faceva parte di una rete di nuraghi, tutti a vista l’uno con l’altro, uno dei quali ritrovato sotto le fondamenta della Casa Zapata nel paese di Barumini (ora adibita a Museo). Questo maestoso nuraghe fu scavato dal grande archeologo Giovanni Lilliu, che da bambino giocava sulla sommità del “gigante” che era seppellito sotto una collina di terra. È proprio grazie all’instancabile lavoro di Lilliu, e degli abitanti di Barumini che parteciparono con entusiasmo ai lavori, che con gli scavi del 1950 e ‘57 si poté estrarre dall’oblio della Storia questo mastodontico nuraghe. L’Unesco lo inserì giustamente nel Patrimonio dell’Umanità, vista l’importanza e l’unicità storico-archeologica del sito. A mio parere, anche tanti altri siti nuragici meriterebbero questo riconoscimento come lo splendido nuraghe di Santu Antine a Torralba, il Losa ad Abbasanta, Su Tempiesu di Orune, Sa Sedda e sos carros di Oliena, ecc. Insomma, la Sardegna tutta sarebbe da proteggere e preservare vista la grande densità di siti archeologici presenti che rappresenta un unicum a livello mondiale.

(Immagine sopra: particolare della Nuraghe di Santu Antine)

Osvaldo Carigi: Angela, cosa ne pensi dell’ipotesi atlantidea della Sardegna, ovvero, Atlantide era qui?

Angela Demontis: Penso che la storia della tragedia di Altantide, narrata da Platone nel Timeo e nel Krizia, fosse riferita alla esplosione del vulcano Thera che seppellì la città di Akrotiri nel 1628 a.C., e che fu scavata a partire dal 1967 dall’archeologo Spyrydon Marinatos. Una città all’avanguardia, con case a più piani, tubazioni che portavano l’acqua in casa e tubazioni fognarie che raccoglievano le acque sporche in circuiti sotto la pavimentazione stradale. Bellissimi edifici con raffinati affreschi alle pareti. E chissà quante altre città edificate sulle pendici di questa immensa caldera che appariva sotto forma di arcipelago sono state seppellite o distrutte! Santorini/Thera sta ad un tiro di schioppo dall’isola di Creta e faceva parte della zona di influenza della civiltà minoica. Una mega esplosione in mare, con vero tsunami di cui si ebbe eco persino in Egitto. Troppo distante per poter coinvolgere la Sardegna. Inoltre bisogna leggere bene i testi di Platone, perché fa riferimenti a dettagli che non erano tipici della civiltà nuragica come ad esempio quando nomina i templi di Atlantide che erano a colonne. I nuragici non costruivano con quello stile, i minoici si. Inoltre sono state fatte analisi geologiche nella piana del Campidano escludendo ulteriormente la teoria dello tsunami. Il nuraghe di Barumini era seppellito sotto una collina di terra, non fango marino. Penso che la Sardegna debba essere valorizzata per le cose eccezionali e uniche al mondo che possiede, di cui abbiamo parlato, e non con le teorie di catastrofi riferite ad un mare lontano. Non ne abbiamo bisogno.

Osvaldo Carigi: Non posso davvero non chiudere in bellezza questa nostra intervista (spero interessante per i lettori) se non citando quello che considero un libro-capolavoro ovvero il “Il Popolo di bronzo” che tanto successo ha riscosso e sta ancora riscuotendo in Italia e in Europa.  Ce ne puoi rapidamente parlare? 

(Immagine sopra: Osvaldo Carigi)

Angela Demontis: “Il Popolo di Bronzo” (Ed Condaghes) è il libro che pubblicai nel 2005 contenente la ricerca originale su armi, abiti, armature ed utensili nuragici fatta sullo studio dei bronzetti prodotti dalla cultura nuragica 3000 anni fa.  Nel libro, che è ancora in vendita, spiego i materiali e le tecniche che occorrevano per creare abiti e tutto il resto e tramite disegni esplicativi fatti da me illustro ogni dettaglio delle statuette.  Nel 2008/2010 portai avanti anche la ricostruzione dei costumi a grandezza reale, con tecniche di archeologia sperimentale, realizzando Il Popolo di Bronzo-La Mostra”, che dopo 34 tappe riscuote ancora grande successo e vanta numerosi tentativi di copiatura. Entrambi i lavori sono apparsi in alcune trasmissioni televisive nazionali, citati in pubblicazioni scientifiche e conosciuti anche all’estero perché rappresentano un ausilio di alto valore culturale e didattico per la comprensione della cultura materiale nuragica.  Caro Osvaldo, infine, desidero ringraziarti tantissimo per questa bellissima intervista, e per la tua grande pazienza e gentilezza.  E ringrazio molto anche il sito www.ilpuntosulmistero.it, per averci concesso questo spazio per poter parlare della Cultura Nuragica con le sue meraviglie.

Se non altrimenti specificato,  tutte le foto sono di Angela Demontis, che si ringrazia per aver gentilmente concesso di pubblicarle.

Parimenti si ringraziano anche gli autori delle altre immagini. 

 

Immagine in basso: i lavori di Angela Demontis: la copertina del libro e la locandina della mostra “Il Popolo di Bronzo”.

 

 

 

 

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