Si infiamma il dibattito sulle ricerche e scoperte di Ornello Tofani in merito alle Mura Megalitiche di Alatri.
Tofani, con una lettera aperta che riceviamo e pubblichiamo, risponde ai rilievi mossigli dal professor Primo Di Paolis.
“Carissimi,
ho letto con attenzione le parole dell’Insegnante Primo Di Paolis. Mi ha girato la sua e – mail l’Ing. Marco Bulloni e credo di dover replicare su qualche punto, magari citando de verbo.
Sono un tipografo, da oltre quarant’anni stampo e firmo, quale editore, libri: soprattutto relativi alla storia della mia Città, Alatri. Dal mio lavoro, non dalla improvvisazione, nasce la mia formazione culturale che, inevitabilmente si è concentrata sulle origini di Alatri. Non nasco dal nulla, e non pretendo di essere creduto: ma, forse, già nel 1980, dovetti scegliere se dare alla stampa “La Progenie Hetea” di don Giuseppe Capone, il volume ch’è diventato il caposaldo della ricerca archeoastronomica; fu un azzardo, in quel momento, perché nessuno conosceva gli studi di don Capone e pur rischiando un “fiasco” dal punto di vista editoriale, tentai quella strada.
Dunque, quando oggi si dà per scontato il collegamento sacro, da parte dei popoli antichi, tra “cielo e terra” per l’atto di fondazione delle loro città, e si pone come verosimile (ho compreso bene?) il fatto che “non sia un’eresia”, si dovrà anche ricordare che c’è stato chi, come me, oltre trenta anni fa, quest’argomento ha avuto il coraggio di conoscerlo, di studiarlo, di discuterlo con chi primo lo propose, prima di stamparlo.
In quest’azione di ricerca delle origini di Alatri, iniziata negli anni ’80, sì davvero mi sono armato di buona volontà, di coraggio, e perché no?, di una buona dose di fantasia: quella che mi occorse per controbattere chi ritenne “folle” dare in edizione un libro che parlava di stelle e costellazioni e di mura ciclopiche. Ma la mia Amicizia con don Giuseppe e la fiducia nella sua Persona, si aggiungevano alla mia sete di conoscenza, nella quale non potevo essere solo sterile spettatore e facile inerte attore. Misi il mio impegno di tipografo e, dopo trenta anni, ancora quel libro è stato solo appena appena studiato, tale è la sua ricchezza. Eppure allora non avevo una preparazione scientifica e culturale tale da permettermi di capire la portata teorica, la valenza di quel testo nell’ambito dell’ermeneutica sul simbolismo degli antichi. L’ho intuita, forse. Ho sbagliato? Me ne dolgo, ma solo con il suo Autore, cioè con don Giuseppe, il quale (in questo concordo pienamente con l’Insegnante Di Paolis) non è stato a tutt’oggi abbastanza apprezzato.
Il nucleo del pensiero del Di Paolis appare di maggiore interesse per me, in quanto mi induce a riflettere non sugli ultimi quattro anni, ma sull’intera mia esistenza. Se ho dato l’idea di una persona che abbia iniziato a interessarsi e ad approfondire la Storia di Alatri, in alcuni suoi settori specialmente, solo a partire dal 2009, allora credo di dover domandare venia: perché non mi son fatto ben portavoce (e ricordo solo qualche titolo) della “Storia di Alatri” del Sacchetti Sassetti, che nella tipografia Tofani fu pubblicata negli anni ‘60; degli Statuti medievali di Alatri e di Tecchiena, pubblicati nel testo latino nel 1976; della traduzione italiana degli Statuti medioevali di Alatri curata dal Prof. Gianni Boezi, edita nei primi anni del XXI secolo, del suo recentissimo “In caput anguli”, sintesi trentennale degli studi di don Giuseppe… e qui arresto l’elenco dei testi che ho dovuto necessariamente studiare nel momento di offrirne l’edizione migliore al pubblico. Ho peccato di superbia? Ho screditato, così facendo, chi più di me è preparato in tali campi? Domando venia, ripeto, agli Autori di quelle opere.
Ma forse la mia colpa maggiore è stata quella di impegnarmi in una lotta quotidiana contro la tesi che pone Alatri come prodotto di una cultura ch’è quella romana. Ho proposto (solo proposto, senza l’audacia di un’insolente dictat) le mie tesi al riguardo e ho presentato le mie scoperte (non ho certo vergogna nel definirle tali): se insieme al mio amico Prof. Gianni Boezi ho rinvenuto quell’enigmatica (per me è così) figura su una pietra dello spigolo sud – est dell’acropoli, è una colpa? Se quando l’abbiamo scoperta, stavamo realizzando le riprese di un video sugli studi di don Capone, è un’offesa al mondo accademico o dei migliori? Posso imputare a me il fatto che quel video non è stato possibile condurlo a termine per la mancanza di fondi, nonostante vi avessimo dedicato mesi di elaborazione, nei testi, nelle riprese, nel montaggio. Ma non credo che la scoperta del simbolo (che ho denominato Templum) sia stato un accadimento negativo per la Scienza: mi si addurrebbe in questo davvero troppo onore! E, per inciso, l’ho definito “templum” in quanto l’ho considerato un “locus” sacro, per la posizione nel quale è il sito e perché tale mi è apparso, stante la consunzione dell’immagine incisa, che, prima di noi, nessuno aveva mai osservato, pur forse avendola vista.
Se mi si domanda a quale anno appartenga il Templum, certo non sono in grado di dirlo perché la pietra non si data, o perché, ancora forse, non si data: fu proprio il prof. Magli, in una sua conferenza qui ad Alatri, che introdusse il riferimento a un Docente suo collega il quale stava mettendo a punto un sistema per datare la pietra attraverso l’analisi delle parti rimaste in ombra, sotto terra, sin dal momento della posa in opera.
Posso però affermare, in via teorica, non apodittica, che, utilizzando ben noti sistemi informatici di ricostruzione dei moti della volta celeste, sono riuscito a formulare l’ipotesi che, in una data epoca, quel Templum, avrebbe potuto indicare (certo, secondo me!) una direzione verso le stelle, attraverso la proiezione sull’orizzonte dei segni direzionali riportati sul piano inciso. Ho commesso una colpa in questo? Non penso, con la mia scoperta, di essermi macchiato del sangue del centauro Nesso… anche perché il primo a ritenere un significato simbolico per il Templum fu proprio don Giuseppe. Era con me il prof. Boezi quando don Capone ci rivelò di aver visto già quel singolare disegno, ma non in una struttura medievale, bensì in qualche documento che aveva consultato per la sua Progenie Hetea. M’invitò a continuare nella ricerca, come lui avrebbe fatto. Poi la vita ci ha separati, ma non l’Amicizia che mi spinge a continuare, anche se offro il destro a chi voglia vedermi rinserrato sulla rocca di un vertiginoso castello fatato, fondato su fondamenta inesistenti.
Mi si conosce davvero poco allora!!! Potrei anche rinunciare a parlare del Templum: e l’illuminazione della Porta dei Falli nei giorni degli equinozi, che ho scoperto; devo sentirmi in colpa anche per quella? E gli allineamenti astronomici con Giza, Carnac, Visoko, Hattusa, oggetto di studio in fieri? E l’indagine sulla portella con stipiti a zampe leonine, ancora tutta da proseguire? E l’analisi dell’epigrafe sulla Porta Minore, ormai trentennale anch’essa? E i contatti che ho intrapreso col prof. Aveni? E l’analisi del lato est dell’acropoli, per il quale col prof. Boezi stiamo valutando una nuova prospettiva di studio? E la mia azione continua a denuncia dell’incuria che danneggia le mura dell’acropoli? Tutto è frutto di una volontà di screditare chi si cimenta in queste tematiche con ben altro atteggiamento e professionalità? Non sono tanto irresponsabile e se posso apparire apportatore di elucubrazioni, voglio intendere queste nel significato che ad esse si dava nel mondo antico: un paziente stillare del pensiero nell’ultima parte della notte che attendeva l’alba. E, se in esse, sembra difficile dimostrare che il masso del Templum sia stato lì dall’epoca della costruzione dell’acropoli, almeno di pari difficoltà mi si rivela la dimostrazione del contrario.
Con piena libertà di pensare tutto il contrario di quello che io propongo non come apoftegma, ma quale stimolo di studio, perché altri, migliori di me scoprano la verità.
E se un giorno qualcuno proverà, con dati oggettivi, che Alatri è stata fondata dai Romani, che il Templum è un prodotto tardo dell’età medievale, che l’acropoli stessa fu relazionata casualmente alle strutture poligonali delle strade sotterranee che s’intrecciano sotto la costa viaria moderna (anche quelle un campo di ricerca al quale intendo dedicarmi), allora riconoscerò a lui il mio grazie: a un Autore che avrà dato risposta alla mia sete di conoscenza; sorriderò anch’io con lui, perché allora avrò compreso indubitabilmente che l’intuizione, la proposizione di una idea, la teoria da me offerta si sarà rivelata errata. Fino ad allora ascolterò e valuterò tesi e ipotesi proposte in accordo o in contrasto alle mie tesi; non riderò di esse solo perché contrarie alle mie.
Esistono le fondamenta al mio discorso, e tutta la costruzione può stare in piedi! E pazienza, se non appariranno solide come le certezze di chi, negli anni passati, operando con ricerca seria ed approfondita, cimentandosi in queste tematiche con ben altro atteggiamento e professionalità, ha creato un piccolo nocumento alle nostre mura, attraverso un’operazione di restauro che le ha rese instabili, vestite a lutto e lacrimanti. Pazienza davvero!
A chiusura del mio semplice appunto, voglio rassicurare l’Insegnante Primo Di Paolis, che ringrazio per avermi invitato al più severo rigore, e che mi ha stimolato ancor maggiore energia d’impegno per il futuro: non gliene voglio. Don Giuseppe mi ha insegnato che, per comprendere alcuni messaggi lasciati nel passato, occorre tempo e attesa; un po’ come fanno le nostre mura, che proteggono sempre chi le rispetta, non chi le abbia offese.
Mi congedo e torno alle mie ricerche
Ornello Tofani”.