ALLA RICERCA DELL’HOMO SELVATICUS IN VAL DI FIEMME (TN)
di Giancarlo Pavat
con la collaborazione di Sonia Palombo
“Non si può fare a meno di pensare all’uomo selvaggio, all’uomo delle foreste, all’Homo Selvaticus, che assilla l’immaginario degli uomini del Medio Evo ed al quale si chiede turbati, quando lo si incontra nella foresta o nella letteratura e nell’arte “Sei un uomo o una bestia?” (J. Le Goff)
Contrariamente a quello che pensano la maggior parte delle persone, non è vero che le montagne, e in particolare le Dolomiti, nei secoli e millenni trascorsi siano state refrattarie all’insediamento umano. Lo testimoniano i numerosi siti archeologici che ci hanno restituito istantanee della vita dei nostri predecessori nella Preistoria e Protostoria. Ovviamente no si sta parlando di insediamenti a quote troppo elevate. Ad esempio nelle Dolomiti i siti di frequentazione mesolitica tra i 10.000 (fine dell’ultima Era Glaciale) e i 7.500 anni fa, sono distribuiti in quote che vanno dai 1.500 ai 2.400 metri slm..
Tracce di cacciatori-raccoglitori sono state scoperte all’Alpe di Siusi (il celebre altopiano dolomitico, chiamato Mont Sëuc in ladino, e Seiser Alm in tedesco), sull’Alpe di Resciesa (che dal 2000 fa parte del parco naturale “Puez-Odle”, Patrimonio mondiale naturale dell’UNESCO, si trova a nord di Ortisei, Urtijëi in ladino e St. Ulrich in tedesco), al Passo Falzarego (il valico di 2.217 metri slm., in provincia di Belluno, che mette in comunicazione l’alto Agordino con Cortina d’Ampezzo), al Passo Pordoi (chiamato Jouf de Pordou in ladino e Pordoijoch in tedesco, valico di 2.239 metri slm., compreso tra i gruppi dolomitici del Sella e della Marmolada),
al Passo Sella (Jëuf de Sela in ladino, Sellajoch in tedesco, valico di 2.240 metri slm., compreso tra il Gruppo del Sassolungo e il Gruppo del Sella, che mette in comunicazione Canazei, in Val di Fassa con Selva di Val Gardena, in Val Gardena), al Passo Gardena (Ju de Frara in ladino “badioto”, Jëuf de Frea in ladino gardenese, Grödner Joch in tedesco, valico di 2.121 metri slm. Situato tra la Val Gardena e la Val Badia, tra il Gruppo del Sella a sud e il Gruppo del Cir a nord, consente le comunicazioni tra Selva di Val Gardena con la frazione di Colfosco del comune di Corvara in Val Badia), Passo Giau (valico alpino di 2.236 metri slm., situato nelle Dolomiti, in provincia di Belluno, dominato dal Nuvolau con i suoi 2.574 metri di altezza e dall’Averau, alto 2.647 metri; collega Cortina d’Ampezzo con Colle Santa Lucia e Selva di Cadore in Val Fiorentina), e ai Laghi di Colbricon non lontano da Passo Rolle (posto a quota 1.984 m slm., collega le valli del Primiero e di Fiemme).
Nel 1985, il professor Vittorino Cazzetta di Pescul di Selva di Cadore (BL), scoprì presso Mondeval de Sora (un ampio pianoro, posto a circa 2.150 metri di altitudine media, nel comune di San Vito di Cadore), sotto un masso erratico, uno dei più interessanti siti paleontologici mai rinvenuti sulle Dolomiti. Dal 1986 al 2000 sul sito vennero condotte ben 15 campagne di scavo coordinate dal prof. Antonio Guerreschi, docente di Paletnologia dell’Università di Ferrara, che grazie ai reperti rinvenuti, hanno permesso di gettare nuova luce sulla preistoria alpina. Il ritrovamento più clamoroso del Mondeval fu una sepoltura risalente ad oltre 8.000 anni fa, ai piedi del Lastoi de Formin , a quota 2.150 metri slm..
Si trattava dello scheletro completo di un cacciatore preistorico del Mesolitico, poi denominato “Uomo del Mondeval”, inumato assieme a numerosi oggetti di corredo. Oggi l’”Uomo del Mondeval” è esposto presso il nuovo Museo di Selva di Cadore.
Per completezza va citata, sebbene geograficamente parlando non siamo in area dolomitica, l’autentica “star preistorica” dell’arco alpino. Ovvero l”Uomo del Similaun”. “Ötzi” o “Oetzi”, come è stato amichevolmente ribattezzato, venne scoperto il 19 settembre 1991, durante una escursione dai coniugi tedeschi Erika e Helmut Simon di Norimberga, sulle Alpi Venoste, ai piedi della Vetta del Similaun (3.213 m s.l.m.) al confine fra l’Italia (la Val Senales in Alto Adige) e l’Austria (la Ötztal nel Tirolo). Come si ricorderà, ritenendo che il corpo (inizialmente non si era compreso che si trattava di un uomo preistorico ma si pensava fosse la salma di un alpinista disperso anni prima) si trovasse in territorio austriaco, la “Mummia” venne portata a Innsbruck, capoluogo del Land del Tirolo (A). Successivamente, rilevazioni più accurate della linea confinaria, dimostrarono che, seppur per pochi metri, il cacciatore preistorico giaceva in territorio italiano. Venne, quindi, stipulato un accordo tra il Governo della Repubblica Austriaca e la Provincia autonoma di Bolzano e la “Mummia” venne restituita all’Alto Adige. Oggi è esposta (e visitatissima) presso il “Museo Archeologico dell’Alto Adige” (Südtiroler Archäologiemuseum in tedesco), il vecchio Museo civico, in via del Museo nr. 43 a Bolzano. Nel 2008 con il sistema del C14 l’”Uomo del Similuan” è stato datato ad un arco temporale che va dal 3300 al 3200 a.C., corrispondente grosso modo alla cosiddetta “Età del Rame, tra il Neolitico e l’Età del Bronzo.
Aldilà dei reali motivi (si è scritto di tutto e il contrario di tutto, su questo vero e proprio “giallo” preistorico) che spinsero l’”Uomo del Similaun” a morire ad oltre 3.000 metri di quota, tutto ciò testimonia come già 5.300 anni fa entrambi i versanti alpini (l’analisi dei reperti, in particolare pollini, trovati assieme alla “Mummia” ha poi dimostrato che il cacciatore veniva dal versante meridionale della catena) fossero frequentati anche a quote notevoli.
Invece l’inizio di insediamenti stabili nelle vallate dolomitiche, a quote progressivamente più elevate può essere datato a 3.500 anni fa, periodo che (si è già visto) corrisponde all’Età del Rame ed in cui ci fu un ulteriore generale miglioramento delle condizioni climatiche. È probabile che proprio in questo lasso temporale (e nella successiva Età del Bronzo, 2.000-850 a.C., circa) si formarono culturalmente quelle Genti che verranno successivamente chiamate “Reti”. E di cui ancora oggi sappiamo ben poco.
Forse la penetrazione nelle valli più profonde ed isolate fu causata dall’arrivo nelle aree pianeggianti di popolazioni più numerose ed agguerrite.
In ogni caso, è storicamente provato che quando le Legioni aquilifere di Roma giunsero nelle Dolomiti cozzarono contro questi Reti. Ovviamente, all’epoca quelle splendide montagne non si chiamavano così. Prendono infatti il nome dalla caratteristica roccia costituita da carbonato doppio di calcio e magnesio (MgCa(CO3)2), la “Dolomia”, che a sua volta deve la propria denominazione al geologo francese Déodat de Dolomieu (1750-1801) che per primo la studiò. La prima citazione certa del termine “Dolomiti” risale al 1837 e la troviamo in una “Guida turistica” edita a Londra, con la quale viene descritta la selvaggia regione montuosa comprendente le Valli di Fassa, Gardena, Badia, Pusteria nonché le cosiddette “Alpi veneziane”.
Ma si dovette attendere sino il libro “The Dolomite Mountains”, diario di viaggio del 1864 di due naturalisti inglesi, John Gilbert e G.C.Churchill, affinché il nome venisse adottato in tutta Europa.
Tornando ai Reti, questi resistettero il più possibile alla pressione romana. Alla fine, in parte vennero assimilati dalla superiore civiltà dell’Urbe, in parte si rifugiarono ancora più in alto sui monti e nel profondo delle foreste.
Furono queste Genti, in un certo senso naufraghi della Storia, che sino al Medio Evo inoltrato rimasero pervicacemente pagane e che, secondo diversi studiosi, avrebbero dato vita (ovviamente in area dolomitica) al mito ed alle leggende dell’Homo Selvaticus.
“Erano certamente loro i Salvans e le Ganes che ci vengono descritti dagli storici (e nelle leggende) come gente mansueta e innocua, di statura umana ordinaria,, pelosi, coperti da pelli di animali, che si nutrivano di erbe e selvaggina, dimoravano in caverne naturali o in misere spelonche nelle selve, allevavano pecore e avevano luoghi sacri dove adoravano dei pagani. Gente che non offende nessuno, uomini che si vendicano solo se provocati, si vendicano allora in modo terribile perché hanno la forza di giganti” (da Dino Di Bona “Guida insolita delle Dolomiti” Newton Comton 2001).
Si tratta ovviamente soltanto di una ipotesi ma va sottolineato che diversi storici Latini pur descrivendo i Reti come barbari, li descrivono come gente coraggiosa, valorosa, leale ed ospitale con gli amici. E pure come forti bevitori. Tratti peculiari che secondo le tradizioni troviamo nei Salvans. L’idea che creature o personaggi fluttuanti nei miti e nelle leggende possano essere il ricordo di altre razze umane, magari più primitive, poi scomparse non è così peregrina e non è decisamente nuova. Ad esempio, il grande etnologo svedese, Gunnar Olof Hyltén-Cavallius (1818-1889) ipotizzò la sopravvivenza sino a tempi relativamente vicini a noi addirittura dell’Uomo di Neandertal. Nel suo trattato etnologico sulla Svezia, “Warend Och Wirdane, ett Forsok i Svensk Ethnologi“, avanzò l’audace ipotesi che i Troll, le creature villose e malvagie del folklore scandinavo, potessero rappresentare il ricordo nella mente popolare dell’esistenza di una razze molto diverse e più selvagge della nostra. Secondo lui, dallo studio delle antiche cronache si evinceva che uomini particolarmente pelosi vennero avvistati in Europa sino al XVIII secolo, specialmente sulle isole svedesi Oland e Gotland, nel Mar Baltico.
E sarebbero state proprio queste creature alla base delle leggende e credenze sui Troll. All’epoca, nonostante la chiara fama accademica di Gunnar Olof Hyltén-Cavallius, la sua ipotesi passò quasi inosservata. Anche perché era stata pubblicata solo in lingua svedese. Ma venne ripresa decenni dopo dallo storico sovietico Boris Fedorovich Porshnev (1905-1972), il quale, nel 1963, ipotizzò la sopravvivenza di Neandertaliani sino a tempi storici ed anche al giorno d’oggi. Secondo lui gli “Alma” del Caucaso e della Mongolia, non erano scimmioni sconosciuti alla Scienza, ma veri e propri ominidi relitti, o meglio ancora esponenti della razza neandertaliana degenerati e ritornati allo stato semiferino.
Proprio come i Salvans.
Ma il Salvan può essere identificato con l’Homo Selvaticus presente nelle culture di tutto l’arco alpino (e non solo, basti pensare alla creature che vivevano o vivrebbero sui Pirenei)?
In linea di massima ritengo di sì. Ma il discorso è decisamente molto più complesso, soprattutto alla luce del fatto che tra le Dolomiti troviamo altre figure in qualche modo simili al “Selvatico” ma che se ne discostano per determinate caratteristiche. Soprattutto se afferenti alla sfera del Soprannaturale.
Infatti, l’Homo Selvaticus e il Salvan non è una scimmia antropomorfa o un orso. Animale che secondo il celebre scalatore altoatesino Reinhold Messner, molto probabilmente si cela dietro la leggenda dello Yeti himalayano e delle altre creature misteriose che a seconda di dove si racconta che vivano vengono chiamate Alma, Bigfoot, Yeren, Yowie, Orang-pendek, Sasquatch. e che il naturalista svedese del XVIII secolo, Carl von Linnè, inserì nella sua opera di classificazione degli esseri viventi identificandolo (e quindi ritenendolo reale e non un essere leggendario) come appartenente ad una specie vera e propria, quella dell’ “Homo ferus”.
E non è una creatura soprannaturale, come il “Green Man”, l’”Uomo Arboreo” delle leggende e dei bassorilievi medievali (e non solo medievali). Laddove sembra avere poteri o facoltà che noi definiamo come esoteriche, in realtà si tratta soltanto di un bagaglio di conoscenze e sapienzialità che derivano dal suo essere a stretto contatto, direi in simbiosi, con la Natura stessa. L’Homo Selvaticus, il Salvan dolomitico, vive nei boschi e sulle montagne più elevate, in un mondo ai limiti del consorzio umano perché è lui stesso che se n’è allontanato. Ma è sempre un Uomo!
Un Uomo come eravamo noi e come non lo saremo mai più. Forse il risultato, scomparso, di una vera evoluzione. La dimostrazione che poteva andare in un altro modo… delle cose che avrebbero potuto essere e che non sono state. E non ci rimane che il rimpianto e un senso di nostalgia.
Ma vediamo di conoscere meglio questo protagonista di racconti, fiabe leggende e persino di interessanti cicli di rappresentazioni iconografiche. Quella più famosa si trova in un antico edificio, oggi museo, dell’abitato di Sacco in Val Gerola, in provincia di Sondrio in Lombardia.
Meno nota, e di recente scoperta, è quella che si può ammirare nella cittadina di Cavalese (TN), paese che fregia il proprio stemma con una “Croce patente” simile a quella dei Templari, capoluogo, appunto, della Val di Fiemme.
Le motivazioni che presiedettero alla realizzazione dell’opera d’arte del XIV secolo (quindi precedente a quella valtellinese), affondano le radici delle tradizioni più antiche e genuine delle genti di quel territorio. Genti che sono state capaci, con tenacia, attraverso i secoli, di fondare e conservare una particolare forma di autogoverno e democrazia diretta, giuridicamente impersonata dalla “Magnifica Comunità”. Simbolo perenne di autonomia è una grande “Tavola rotonda” in pietra, una “triplice cinta”, che ancora troneggia nel folto del Parco della Pieve di Santa Maria Assunta a Cavalese. Chiesa di cui torneremo ad occuparci tra breve. Il manufatto medievale consta di due ordini di sedili anulari concentrici con in mezzo la “tavola rotonda” monolitica. Seduti attorno ad essa, davanti all’intera popolazione, i rappresentanti della “Libera Comunità di Fiemme” prendevano le decisioni per e su mandato della propria Gente. Votavano utilizzando un incavo, posto al centro della “Tavola”, in cui erano riposte le “ballotte”, palline bianche o nere.
I due colori o, meglio, non colori, opposti e contrari. Che rappresentano l’eterno conflitto tra la Luce e le Tenebre, lo Yin e Yang delle filosofie orientali, il Bene ed il Male. I colori del vessillo dei Templari; il “Baussant”, o “Valcento”, in italiano.
Bene e male. Noto ed ignoto. Le aree dissodate, destinate all’insediamento umano e marcate da chiese, cappelle e capitelli e l’incolto.
Il bosco, la foresta. Abetaie e laricete che ancora oggi ricoprono i versanti della vallata. Stretta a meridione dalla tormentata catena di porfidi e basalti vulcanici del Lagorai (ancora oggi una delle ultime aree wilderness delle Alpi Orientali, con 180 cime circa 80 laghi, da cui il nome della catena e quello dello specchio d’acqua più vasto), e a nord dai rilievi che con la Pala di Santa ed il Latemar costituiscono la porta d’ingresso del magico regno dei “Monti Pallidi”; le Dolomiti.
L’alta montagna e la foresta fornivano certamente sostentamento e ricchezza alle popolazioni vallive. Non per nulla la Serenissima Repubblica di Venezia concesse il titolo di “Magnifica” alla Comunità Fiemmese, proprio per il pregiato legname che le forniva (pagato profumatamente) per la propria flotta, che veniva fluttuato lungo il torrente Avisio, e poi nell’Adige.
Ma rimasero per secoli luoghi in cui non era il caso di sostare più di tanto. Abitati da bestie feroci, come la gigantesca orsa che San Lugano, l’ “Apostolo delle Dolomiti” vissuto nel V secolo d.C., esorcizzò con una ispirata predica presso il passo che da lui prenderà il nome e che collega proprio la Val di Fiemme con l’Alto Adige.
Oppure deputate all’epifania del Trascendente o ritenute infestate da esseri, spesso ancora più spaventosi, anch’essi non di questo mondo. In mezzo al Lagorai, a 2.103 metri slm, si apre un laghetto incantevole detto “delle trote”. La presenza di vita animale nello specchio d’acqua sembra confermare l’etimologia del nome. Ma è stata proposta pure un altra spiegazione. Molto più inquietante e confacente con l’atmosfera generale dell’intera catena. Potrebbe infatti derivare dalla parola del dialetto tirolese “Trutten”. Con cui venivano indicati con timore ed a bassa voce, una particolare categoria di “spiriti incubi”, usi a perseguitare senza requie gli uomini. Quindi “Lago degli spiriti”.
Ci sono persone che ancora oggi asseriscono di aver incontrato strani esseri proprio tra le aguzze vette della catena del Lagorai.
Comunque guai attardarsi fuori dell’uscio di casa in determinate notti. C’era il serio rischio di fare brutti incontri, di venire coinvolti in terrificanti e demoniache “cacce selvagge”, guidate dagli innominabili “Pataù” o dal “Teatrìco”. Ma non è tutto. In Val di Fiemme fenomeni o presenze misteriose arrivavano anche dal cielo.
Tra gli ultimi giorni del 1656 e di primi di gennaio del 1657, la strada che collega i paesi di Molina e Castello di Fiemme, non distanti da Cavalese, fu interessata da un fenomeno riportato dalle cronache coeve e mai spiegato in modo razionale. Un gruppo di commercianti e carrettieri che risaliva la valle assistette terrorizzato alla caduta dal cielo di una “certa cosa afogàda” (da “Panorama sulla Valle di Fiemme” AA.VV. – Casa Editrice Panorama Trento, 2005); un oggetto infuocato. Secondo quei commercianti si trattava di un “Dragonzel”, sorta di drago presente nelle narrazioni popolari, fatte durante i lunghi inverni accanto alle “stue”. Forse si trattò di un “normale” meteorite e la realtà confermò, drammaticamente, le leggende. Ma in questi racconti, tradizioni, saghe, non tutte le creature sono malvagie.
Alcune sono decisamente più benevole nei confronti degli uomini. Tra queste, appunto, l “Om Pelòs”, “Salvan”, “Om Selvadech”, “Salvanel”, oppure “Omo Salvadego”, come si dice nel dialetto fiemmese. Cambia il nome a seconda della valle ma la sostanza e l’archetipo sono sempre gli stessi. Contrariamente ad altre rappresentazioni, spesso di difficile accesso, la raffigurazione dell’Homo Selvaticus a Cavalese può essere tranquillamente ammirata in ogni momento e da tutti. Infatti si trova sulla facciata esterna di un edificio a pianta a mezzo ottagono, chiamato “Casa Del Pero”, risalente al XIV secolo.
L’edificio è posto proprio nel centro di Cavalese, in piazza Dante, quasi di fronte alla Parrocchiale di San Vigilio del XVII secolo. Negli anni ’90 sono stati realizzati accurati restauri che hanno riportato alla luce un interessante ciclo di affreschi trecenteschi che decorano le quattro facciate. Si vedono un “San Cristoforo” ed una “Santa Dorotea” che porge un cesto di fiori a Gesù Bambino assiso sulle spalle del “Gigante Buono”. Ai piedi dei due santi, numerosi pesci saltellano fuori dall’acqua. Sulla facciata meridionale si nota il cosiddetto “Mascherone di Carlo Magno“. La definizione è puramente convenzionale. Infatti, nulla prova che il volto barbuto e coronato rappresenti realmente l’Imperatore Carolingio. Secondo alcuni potrebbe ritrarre “Laurino”, il Re celebrato nella nota fiaba sulla nascita del gruppo dolomitico del Catinaccio/Rosengarten e del fenomeno dell’Enrosadira.
Altre leggende, altri miti, che sembrano rincorrersi per ricordare all’uomo, che, nonostante la propria smisurata arroganza, rimane sempre circondato da una natura e da fenomeni spesso incomprensibili.
Sulla facciata occidentale dell’edificio, ecco, finalmente, l’Omo Salvadego con tutta la sua famigliola. Il suo aspetto corrisponde più o meno all’iconografia tradizionale. È nudo, piuttosto peloso, porta dei rami sul capo ed altri cingono i suoi fianchi, infine si appoggia ad una enorme clava che ha l’aspetto di un bastone da pellegrino o da eremita a forma di “Croce del Tau”. A sinistra, per chi guarda la facciata della “Casa”, ecco la “Gentile signora”, a seno nudo, anche lei con le sue belle foglie intrecciate a guisa di perizoma, che tiene per mano il figlioletto. Se è sconosciuto l’autore, parimenti sono i motivi della realizzazione proprio su “Casa Del Pero”. Certamente il soggetto dell’Homo Selvaticus non è casuale. Nel XIV secolo, l’edificio, dotato di torre e simile ad una fortezza, marcava i termini dell’abitato di Cavalese. Oltre si sviluppavano ancora orti o pascoli ma poi l’area antropizzata terminava, la Natura Primigenia tornava a farla da padrona. Si estendevano quelle foreste a cui si accennava poc’anzi. Vista la valenza tutto sommato positiva, benigna, generalmente attribuita all’Uomo Selvatico (in molti racconti insegna ai montanari l’utilizzo del latte per fabbricare burro e formaggi ed altri segreti forse un tempo noti all’Umanità più remota e poi dimenticati a causa di quello che consideriamo progresso civile e tecnologico) è probabile che la “Famiglia Selvatica” di Cavalese abbia avuto una funzione apotropaica. Sorta di “guardiani” o “custodi”, insomma.
Ma quella di “Casa Del Pero” non è l’unica testimonianza di “Uomini Selvatici” in Val di Fiemme. Giova citare il gruppo folcloristico locale chiamato “El Salvanel“. Il gruppo è nato nella prima metà del XX secolo, quindi ben prima che venissero riportati alla luce gli affreschi di “Casa Del Pero”.
Ma si può pure scoprire che con quel nome viene indicato una sorta di “folletto”, sempre dei boschi e quindi sempre legato al “topos” della natura primigenia, a volte dispettoso a volte solidale con gli uomini. Per inciso viene chiamato “Salvanel” anche quella specie di “occhiolino” riflesso da uno specchio colpito dai raggi del sole. In questo caso, visto il carattere di inafferrabilità e, a volte, di fastidiosità del fenomeno luminoso, è più pertinente identificarlo, considerato il carattere “burlone”, con un “folletto” che con l’Homo Selvaticus.
Annamaria Vanzo di Cavalese, dopo l’uscita di un mio articolo intitolato “Lo Yeti delle Dolomiti” sul numero di settembre 2010 della rivista “X-Times” (della X-publishing) mi segnalò cortesemente (inviando anche alcune fotografie) che “sul portale della chiesa di S. Maria Assunta di Cavalese ci sono alcuni uomini “silvani” abilmente nascosti nei suoi ghirigori ornamentali”.
Restando sempre a Cavalese, fra il Teatro Comunale ed il Palacongressi, all’angolo di via Roma che si immette in viale Fratelli Bronzetti, ha sede l’ “Ispettorato Forestale”, oggi “Distretto Forestale delle Valli di Fiemme e Fassa”. I due frontoni della facciata dell’edificio ospitano affreschi allegorici riferiti alla piantagione ed al taglio delle foreste, realizzati nel 1921 dall’artista locale Enrico Clauser (1883-1928). I dipinti rappresentano una sorta di “Uomo dei Boschi”, deputato a sovrintendere alle attività legate alle foreste. Vi si legge l’iscrizione latina “Alteri Seculi Maturum” (“Per il secolo che verrà taglio le piante mature”). Ovviamente si tratta di un opera moderna, eppure è importante, perché indica come, magari a livello inconscio, l’idea, la tradizione, di un “essere” perfettamente in simbiosi con la natura circostante, sia ben radicata nella cultura e nel carattere dei valligiani. Un affresco simile e con il medesimo significato simbolico abbellisce la facciata di uno degli edifici del “Demanio Forestale” a Paneveggio, frazione di Predazzo a quota 1.512 m.slm., nei pressi della Chiesetta dell’Assunta risalente al 1730 (ma ricostruita nel 1926 dopo le distruzioni causate dagli eventi bellici della Prima Guerra Mondiale. Il fronte correva sul Passo Rolle e lungo il crinale del Lagorai).
Il luogo è altamente significativo visto che si trova nella Foresta del “Parco di Paneveggio e delle Pale di San Martino”. Ai piedi della Vezzana e del Cimon della Pala, le vette più alte del gruppo dolomitico che concorre a dare il nome all’area naturale, che comprende pure vaste porzioni del Lagorai. Si tratta della celebre e celebrata “Foresta dei Violini”, in quanto vi cresce l’Abete Rosso. Il cui legno, per le sue particolari ed uniche doti di risonanza è eccellente per la produzione di tavole armoniche degli strumenti musicali a corda. Come chitarre e pianoforti, viole, violoncelli e violini. Come il mitico “Stradivari”. Strumenti da cui Giuseppe Tartini (1692-1770) ha tratto il “Trillo del diavolo” e Nicolò Paganini (1782-1840), suoni e melodie ugualmente in odore di zolfo.
Un’altra raffigurazione dell’Homo Selvaticus è, forse, ravvisabile in un monumento situato nel centro storico di Predazzo. Altro importante comune della Val di Fiemme. Trattasi della “Fontana di Pè de Pardàc“, databile tra il XVII ed il XVIII secolo, quasi addossata alla “Casa del Pinzan“.
Il manufatto, realizzato in porfido del Lagorai, si presenta con un doppio bacino, uno come abbeveratoio e uno come lavatoio. Il pilastro, anch’esso in porfido, dal quale attraverso due cannelle, fuoriescono gli zampilli d’acqua, è decorato da due mascheroni barbuti. Per qualcuno rappresentano “Giano Bifronte“, per altri studiosi ci si troverebbe davanti ad una ennesima rappresentazione apotropaica dell’Homo Selvaticus.
Un altro mistero, dunque, come quello proprio della figura dell’ “Uomo Selvatico”. Che continua ad ammonirci, dopo tanti secoli, a cercare di vivere in simbiosi con la natura ed il mondo che ci circonda e non violentarlo con l’inquinamento ed un progresso dissennato, che rischia di portarci sull’orlo di una catastrofe planetaria. Un allegoria, quindi, soltanto un simbolo?
Se un giorno, durante una escursione tra quelle pendici montuose, oppure impegnati in una passeggiata nel parco, ad un certo punto, ci sentiremo osservati da qualcosa o qualcuno, celato laggiù, dove è più folta e oscura la foresta. Beh…..non spaventiamoci più di tanto. Se noi rispetteremo il suo mondo, la Natura, lui rispetterà noi.
Galleria di immagini del Lagorai.
(Se non altrimenti specificato le foto sono di Giancarlo Pavat. Le foto di Déodat de Dolomieu, Gunnar Olof Hyltén-Cavallius, Boris Fedorovich Porshnev e Carl von Linnè sono state tratte da Wikipedia)