LA TITANICA IMPRESA DEL RECUPERO DELLE NAVI DI CALIGOLA A NEMI (Roma). di Giancarlo Pavat

(Immagine sopra: il pittoresco borgo di Nemi – foto S. Palombo 2008)

 

Visto il vivo interesse suscitato dall’articolo dell’archeologa dottoressa Teresa Ceccacci,  dedicato ai misteri delle Navi romane di Nemi, abbiamo ritenuto che fosse interessante, e certamente gradito ai nostri lettori, ritornare sull’argomento (che è ovviamente vastissimo e suscettibile di  aggiornamenti e/o nuove ipotesi)  e si è deciso di pubblicare un pezzo scritto dal nostro Giancarlo Pavat addirittura nel 1991. L’articolo venne redatto sull’onda dell’entusiasmo per la visita a  Nemi e per la “scoperta”  dei numerosi enigmi che caratterizzano quel luogo straordinario. Successivamente , nel 2005, venne rivisto da Pavat dopo che, assieme alla moglie Sonia Palombo e ad altri amici, aveva percorso per la prima volta (andata e ritorno) il cunicolo dell’emissario. Ma alla fine non venne mai pubblicato. Pertanto trattasi di una chicca assolutamente inedita e, nonostante il tempo trascorso quanto contenuto è ancora attuale e i misteri che adombra non sono stati assolutamente svelati. Ringraziamo Giancarlo Pavat per aver concesso il suo testo.

Infine, a proposito del destino (per certi versi non ancora del tutto chiaro) delle due gigantesche navi di Caligola, abbiamo aggiunto un breve testo riferito ad alcune considerazioni fatte dal ricercatore storico e scrittore Marco Zagni.   

Buona lettura.

(La Redazione)

 

I modelli in scala delle navi di Caligola – foto G Pavat 2005

 

I MISTERI DI NEMI.

LA TITANICA IMPRESA DEL RECUPERO DELLE NAVI DI CALIGOLA 

di Giancarlo Pavat (*)

Da sempre coloro che abitavano sul bordo del cratere o sulle rive del Lago di Nemi sapevano che sotto le acque dello “Specchio di Diana” ci fossero gigantesche e antichissime navi. Quante? Una,  due, forse di più. Ma chi le aveva realizzate?  Forse gli antichi romani. D’altronde chi avrebbe mai potuto costruire simili giganti?

Eppure nessun testo classico giunto sino a noi nomina le navi di Nemi. La spiegazione, anzi, le spiegazioni possono essere diverse. Furono vittime della damnatio memoriae che colpì, come vedremo tra poco, il suo artefice e proprietario?

Inoltre, non si deve mai scordare che dal naufragio del Mondo Antico si è salvata solo una minima parte di tutti i testi storici, geografici, tecnici, scientifici dei Greci e dei Romani.

In ogni caso qualcosa in fondo al lago c’era davvero.  Leggende e dicerie circolavano sui favolosi tesori che si sarebbero trovati al loro interno. Per secoli, ogni tanto, nelle reti dei pescatori venivano trovati manufatti e reperti che sembravano confermare tali racconti sui segreti e misteri custoditi nel Lago di Nemi.

Finalmente, durante il nostro Rinascimento, si decise di far risorgere le navi dalla loro tomba lacustre. Il primo a provarci (su incarico del potente cardinale Prospero Colonna, signore di Nemi) fu nel 1446 Leon Battista Alberti (Genova 1404 – Roma 1472). Celebre architetto scrittore, matematico, pittore, scultore, filosofo, insomma il tipico esempio di genio multiforme prodotto dall’Umanesimo e dal Rinascimento italiano. Ma il tentativo fallì.

Ci riprovò nel 1535, l’ingegnere (nonché speleologo e alpinista ante litteram, a cui si deve, tra l’altro, la prima salita nota ai 2.912 metri slm del Corno Grande del Gran Sasso d’Italia) Francesco de Marchi. Invano.

Per avere altri tentativi si dovette aspettare il XIX secolo, con quelli di Amnesio Fusconi nel 1827 (che utilizzò la cosiddetta “Campana di Halley” per le immersioni) e del noto antiquario Eliseo Borghi nel 1895. Quest’ultimo tentativo, sebbene permise di riportare in superficie importanti e splendidi reperti tra cui gli straordinari bronzi a guisa di protomi feline e di Gorgone, ancora oggi visibili al Museo delle navi, arrecò anche notevoli danni agli scafi. Addirittura alcune travi del fasciame, staccate e riportate a galla, vennero abbandonate a marcire sulla battigia.

Si racconta che alla domanda su che cosa si dovesse fare con le assi, l’allora Ministro della Marina Benedetto Brin, abbia risposto, “fatene una zattera e affondatela nel lago”. Semplice aneddoto destituito da ogni fondamento storico? Alla luce della scarsa cultura e larghezza di vedute della stragrande maggioranza di ministri e politici che si sono succeduti dall’Unità d’Italia in poi, temiamo che la risposta abbia un fondo di verità.

(Immagine di apertura: il cratere con il Lago di nemi e il Museo delle navi romane – foto G Pavat 2008)

Comunque, tra il 1895 ed il 1896, l’ingegnere Vittorio Malfatti, Tenente colonnello del Genio navale, riuscì ad identificare con certezza la posizione di due navi sul fondo del bacino. Inoltre, realizzò anche un preciso rilievo del lago vulcanico ed esplorò il tratto iniziale del celebre “Emissario” (o “Condotto di Nemi”). Fu lui a rendersi conto che era da escludere in maniera categorica la possibilità di sollevare le navi per portarle all’asciutto. Bisognava percorrere una strada alternativa. L’unico modo per recuperarle era prosciugare il lago!

Ma i tempi non erano ancora maturi per una simile impresa. Poi venne la Grande Guerra e l’attenzione fu ovviamente concentrata altrove.

Passata la bufera dell’immane conflitto, si tornò a parlare dei giganti affondati nel lago. Nel 1926 venne istituita una apposita commissione alla cui guida fu posto l’archeologo nonché senatore Corrado Ricci. La Commissione ando’ a rileggersi tutti gli incartamenti di Malfatti e non poté che giungere alle sue medesime conclusioni. Solo prosciugando il lago sarebbe stato possibile recuperare le navi.

Il 9 aprile 1927 fu lo stesso Capo del Governo e Duce del Fascismo Benito Mussolini ad annunciare che si sarebbe dato il via alla grandiosa operazione per riportare alla luce quelle testimonianze della grandezza di Roma. Il maggiore protagonista di quella che, giustamente, venne vista come una impresa epocale, fu l’ingegnere piacentino Guido Ucelli (1885-1964) direttore generale della Società Costruzioni Meccaniche Riva di Milano.

Per un approfondimento, soprattutto sugli aspetti tecnici ed ingegneristici che caratterizzarono l’impresa titanica, si rimanda al libro scritto dallo stesso ingegnere Ucelli dal titolo “Le Navi di Nemi”, stampato dal Poligrafico dello Stato nel 1940 e ristampato negli anni ’50. Per inciso Ucelli è stato anche il fondatore del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica “Leonardo da Vinci” di Milano.

Tornando a Nemi, per abbassare il livello delle acque del lago e far emergere le due navi, si utilizzò anche il celebre e sotto certi aspetti ancora misterioso Emissario, opportunamente cartografato, percorso e messo in sicurezza (si vedono ancora oggi alcuni archi realizzati in quegli anni).

Esiste una fotografia scattata il 20 ottobre 1928 in cui si vede Mussolini (vestito in borghese, all’epoca non usava ancora indossare divise) assieme a una folla di personaggi legati all’impresa e funzionari statali e uomini del regime, osservare le idrovore impegnate a pompare le acque del lago di Nemi.

 

(Immagine sopra: il cunicolo dell’emissario del lago di Nemi – foto G Pavat 2008)

Le prime strutture delle navi romane apparvero il 28 marzo del 1929. Il 7 settembre, con il livello più basso di circa 20 metri, la prima nave era ormai completamente emersa. Alla fine del gennaio del 1930, anche la seconda era finalmente all’asciutto.

Dopo circa 5 anni di lavoro davvero pazzesco erano stati tolti dall’antico cratere oltre 40 milioni di metri cubi d’acqua!

Il Mondo intero rimase sbalordito! Mai prima di allora era stata realizzata una simile impresa tecnologica e archeologica. E ovviamente il Regime sfrutto’ il successo usandolo come prova di ciò che era capace di fare la nuova Italia Fascista.

Nel 1935, a pochi metri dalla nuova riva del lago, venne costruito il Museo su progetto di Vittorio Ballio Morpurgo. E fu un nuovo primato. Infatti si trattò della prima volta al Mondo in cui un museo veniva appositamente ideato e costruito per ciò che doveva ospitare. Ovvero i due enormi scafi, che vi vennero trainati all’interno tra la fine di quell’anno e gli inizi del ’36.

 

(Immagine sopra: la seconda nave romana ormai all’asciutto. Notare le dimensioni se paragonate alle persone sulla destra – Fonte Wikipedia)

Finalmente le due navi romane potevano essere ammirate da tutti. E la vista era qualcosa da mozzare il fiato. Erano entrambe lunghe poco meno di 80 metri (si pensi che le caravelle con cui Cristoforo Colombo aveva attraversato l’Atlantico raggiungevano a stento i 20 metri). E più precisamente la prima (ad essere recuperata) vantava 71 metri di lunghezza per oltre 20 metri di larghezza. La seconda, invece sfiorava gli 80 metri di lunghezza e i 30 di larghezza. A bordo, naturalmente, non venne trovato alcun tesoro leggendario ma l’importanza archeologica e culturale delle due navi fu immediatamente chiara.

Intanto il rinvenimento di tubazioni per l’acqua installate a bordo su cui era inciso il nome “G CAESARIS AVG GERMANIC” permise di attribuire i due giganti a Gaius Ilulius Caesar Augustus Germanicus, ovvero l’imperatore Caligola (dal nome delle calzature militari che era solito indossare da bambino). Passato alla Storia come folle e depravato (ma su questa descrizione e sul giudizio storico tramandato ai posteri pesa la damnatio memoriae decretatagli dal Senato e la penna di storici romani appartenenti o vicini alla classe senatoriale), assassinato dai pretoriani a 28 anni dopo soli 4 anni di regno dal 37 al 41 d.C..

Ma l’aspetto più importante fu che, grazie al recupero, la conoscenza della tecnica navale antica e in particolare romana, fece passi da gigante. Le due navi erano veri e propri capolavori dell’arte cantieristica, degni di un Colosseo o del Pantheon. Si dimostrò che era da sfatare la convinzione (che ancora oggi persiste in certi ambienti accademici) secondo cui i Romani sapevano a malapena navigare lungo le coste o da isola a isola a causa delle scarse conoscenze tecniche navali e dell’arte della navigazione. Invecei la tecnologia impiegata era avanzatissima e, probabilmente, ne conosciamo solo una minima parte. Incredibili furono alcune scoperte fatte a bordo. Non solo sui due giganti vennero trovati templi in muratura con marmi, statue, bassorilievi e sistemi termali identici a quelli realizzati sulla terraferma in qualsiasi città romana, con tubature e altri sistemi di alimentazione modernissimi con tanto di rubinetti. Ma si scoprì che statue e argani erano montati su piattaforme che ruotavano grazie a modernissimi cuscinetti a sfera. Ancora oggi esposti e visibili nelle teche del Museo.

Per non parlare di due grandi ancore. La prima costituisce un unicum archeologico del Mondo Antico (e non solo) ed è in legno con ceppo di piombo lungo oltre 5 metri. La seconda è ancora, se possibile, più stupefacente, visto che è identica alla tipologia chiamata attualmente “dell’Ammiragliato” perché inventata dal capitano inglese Rodger nel XIX secolo. Inventata? Direi reinventata. I Romani l’avevano concepita quasi duemila anni prima!

Inoltre si è vociferato che le navi contenessero altre meraviglie tecnologiche in anticipo sui tempi, purtroppo andate perdute per sempre nel rogo che consumò i due giganti la notte tra il 31 maggio e 1° giugno 1944. Sebbene la Commissione d’inchiesta abbia stabilito che ad incendiarle erano stati soldati tedeschi in ritirata (Roma sarà liberata pochi giorni dopo, tra il 4 e il 5 giugno), e questa è ormai la versione ufficiale consegnata ai posteri, sussistono fondati dubbi su come siano davvero andate le cose. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.

Oggi all’interno del Museo sono visibili delle ricostruzioni delle navi in scala 1:5, oltre a tantissimi reperti sopravvissuti all’incendio o rinvenuti nel sito archeologico del Tempio di Diana Nemorense.

(Giancarlo Pavat)

* Scritto alla fine del marzo 1991, dopo aver visitato per la prima volta il borgo di  Nemi e il suo lago e riveduto e integrato nell’estate del 2005 dopo aver percorso, sempre per la prima volta, l’Emissario del lago di Nemi.

Il noto scrittore e ricercatore storico Marco Zagni, autore di diversi volumi sui misteri della Seconda Guerra Mondiale e del Nazismo, nel libro.”Il Fascio e la Runa” (Mursia 2015) (dove, a pag 291, è citato pure il libro “Il Raggio della morte ” scritto nel 2013 dal nostro Giancarlo Pavat e dal Direttore del Museo Storico della Guardia di Finanza Gerardo Severino) ha pubblicato un interessante documento storico collegato con le Navi di Nemi. Redatto nel 1943 dal Kunstschutz Abteilung del III Reich e consegnato al professor Hans Gerhard Evers, contiene la lista di siti archeologici, artistici, storici italiani che le Forze del III Reich su ordine di Berlino,  dovevano assolutamente tutelare e proteggere. Ebbene nell’elenco compaiono pure le Navi romane di Nemi. Giustamente, Zagni fa notare che, se per i tedeschi erano da proteggere, risulta difficile credere che siano stati proprio loro ad incendiarle. L’autore ritiene che, con tutta probabilità, la colpa sia da attribuire ad un’azione militare alleata.

Il Museo delle Navi Romane si trova a Nemi (Roma), all’interno del cratere vulcanico sulla riva settentrionale del lago con accesso in via di Diana n. 13-15; 00040

Info:

Tel 0039 069398040

pm-laz@beniculturali.it;

 

(Immagine sopra: il lago di Nemi visto dal bordo del cratere. Sotto: Giancarlo Pavat nel Museo delle Navi Romane a Nemi – foto Sonia Palombo 2005)

 

 

 

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