L’Iron Pillar, la vera Colonna di Ashoka e qualche svista…di Roberto Volterri e Giuliana Pedroli Piras.

 

Immagine di apertura; L’Iron Pillar – ovvero la colonna di ferro – di Dheli. Fu fatta realizzare da Kumara Gupta nel 413 d.C. e NON dal sovrano Ashoka vissuto tra il IV e il III secolo a.C. Quasi sette secoli prima!

 

 

L’Iron Pillar, la vera Colonna di Ashoka e qualche svista…

 

 

di Roberto Volterri

in collaborazione con Giuliana Pedroli Piras

 

 

Per questa parte del articolo lascio in gran parte la parola a Giuliana Pedroli Piras, instancabile viaggiatrice nei più o meno misteriosi territori della ‘magica India’.
Non molto tempo fa, durante uno dei suoi annuali viaggi esplorativi, ho avuto modo di comunicare con lei – via ‘sms’: funzionavano stupendamente! – a proposito di una strana colonna di ferro da tutti conosciuta come Colonna di Ashoka’.
Dato che era a Dheli, le chiesi di fotografarla – Giuliana è un’ottima fotografa, con mia infinita ‘invidia… – e di ricavare qualche ulteriore informazione riguardo alla storia del manufatto. Nelle pagine che seguono riporto le sue dettagliate osservazioni – poi integrate da miei commenti di carattere prevalentemente metallurgico – che fanno chiarezza sulla vera natura del curioso manufatto, su chi la fece erigere, sulla sua cronologia. Ce n’era veramente bisogno…
A volte anche l’antichità crea confusione, si vuole citare una cosa interessante, che si perde nella notte dei tempi, e cosa succede? Ci si fida della memoria o di nozioni riportate in modo frammentario ed ecco che la  “ svista “ è dietro l’angolo . . .
Ma si sa, passano i secoli o addirittura i millenni e anche la memoria più vivida perde colpi. Se poi si dà per scontato che le notizie arrivino da una fonte certa ed attendibile, ecco che non si controlla, non ci si accerta della veridicità delle affermazioni.  Se è scritto sui libri, se lo dicono i giornali… e poi l’India è tanto lontana!
E invece no. Non è poi così lontana e la moderna tecnologia ha annullato le distanze, si va dall’altra parte del mondo in poche ore, e là, alla ricerca di dati più precisi si ha la sorpresa di scoprire che, convinta di cercare una cosa ne trovi un’altra !
Per prima cosa ti viene il dubbio di aver sbagliato, capito male.
Ti informi meglio ‘in loco‘, vai di persona a verificare ed ecco che ti trovi a smentire  nientemeno  che  Charles Berlitz  Peter Kolosimo, Erik Von Daniken!
Pezzi da novanta nel campo dell’archeologia ‘misteriosa’…  
Ma, dopo una premessa così corposa sarà meglio dire cosa sono andata a cercare in India e cosa, invece, ho trovato !
Ho la fortuna di avere per cugino, e caro amico, un noto scrittore e archeologo, il dottor Roberto Volterri, ricercatore in ambito universitario e autore di numerosi libri che, in gran parte, trattano della sua grande passione: l’archeologia in tutti i suoi aspetti, specialmente se  misteriosi o inspiegabili.
Sapendo che di lì a poco sarei partita per il mio periodico viaggio in India e necessitandogli notizie certe e dettagliate sulla cosiddetta Colonna di Ashoka, mi incarica di fare ricerche a Delhi dove pare che, da secoli, la famosa colonna di ferro sfidi le intemperie piantata nel bel mezzo del cortile di una Moschea, il Qubt Minar, bella, lucida, brillante e senza la minima traccia della naturale corrosione che il tempo lascia inevitabilmente.

 

Che faccio giunta a Delhi ? Cerco notizie della Colonna di Ashoka per assolvere l’incarico ricevuto, nonché per colmare anche una delle mie tante lacune in materia.
No. La Colonna di Ashoka non esiste.
A Delhi nessuno sa della colonna che vado cercando. D’accordo che la conoscenza di reperti così antichi non è la necessità primaria di ogni indiano, ma almeno le guide turistiche locali che accompagnano giornalmente migliaia di visitatori la conosceranno!
No, niente da fare nemmeno con i più celebrati “volumetti guida” che evidenziano dettagliatamente tutto ciò che di interessante c’è da vedere.
A Delhi, la Colonna di Ashoka,  con le caratteristiche da me descritte,  non c’è.
D’accordo che l’imperatore Ashoka è vissuto agli inizi del III secolo a.C. ma, se ancora se ne parla, questa colonna ci dovrà pur essere!
Accantonata ma non dimenticata la colonna, proseguo il viaggio. Ci penserò strada facendo…
Meta dopo meta, una più bella dell’altra, arriviamo a Benares o meglio, Varanasi, il suo antico nome.  Avendola già visitata più volte decidiamo di andare a Sarnath, uno dei luoghi del Buddha dove la tradizione vuole che l’ Illuminato abbia tenuto il suo primo sermone ad un esiguo gruppo di discepoli, impartendo loro il proprio insegnamento.
Il vasto parco recintato dove sono stati riportati alla luce i resti di quella che fu una città veramente grande e importante per quel tempo, conserva le vestigia di uno stupa imponente. Un enorme basamento sul quale emergono i resti di quella che fu una magnifica torre, alta più di cento metri e costruita, si dice, nel II secolo a.C.
Proseguendo di rovina in rovina mi ritrovo davanti ad un piedistallo sul quale, opportunamente recintato e protetto da un piccolo tetto che sormonta quattro robusti pilastri, posso vedere i resti di una colonna in pietra di dimensioni di tutto rispetto che conserva ancora molto nitidamente una scritta antica tuttora leggibile. Due grandi cartelli scritti in lingua indi e in inglese raccontano la storia di quei quattro frammenti della colonna, la Colonna di Ashoka!
Ma guarda! Me ne ero quasi dimenticata e, a quasi 800 chilometri di distanza da Delhi, ecco che trovo quanto andavo cercando…
Leggo attentamente il cartello che dice a chiare lettere come i quattro reperti siano i frammenti della colonna monolitica, alta 15,25 metri che l’imperatore Ashoka, nel III secolo a.C., pose appunto a Sarnath, presso quelli che ora sono i resti di monasteri che all’epoca ospitavano circa tremila persone, tra monaci e monache.
 I mezzi di diffusione delle notizie a quel tempo erano pressoché inesistenti, perciò il saggio Ashoka, affinché nessuno potesse dire di non essere informato delle leggi da lui emanate, ebbe la geniale idea di far incidere nella pietra, a imperitura memoria, i suoi editti.
Quello scolpito sulla Colonna di Sarnath invitava monaci e monache dei seminari ivi situati, ad una pacifica convivenza e ad evitare qualsiasi motivo di attrito o inimicizia tra loro onde scongiurare il pericolo di uno scisma, affinché i monasteri fossero oasi di preghiera ed esempio di pace.
Ma non solo, poiché l’imponente colonna, all’epoca, reggeva un capitello scolpito, raffigurante quattro leoni, posti sopra un abaco, su cui sono scolpiti quattro chakras alternati da un leone, un elefante, un toro e un cavallo.
Il tutto poggia su un fiore di loto rovesciato. Il prezioso capitello, rinvenuto intatto ai primi del Novecento durante lavori di recupero negli scavi archeologici, ora perfettamente conservato, fa bella mostra di sé nel Museo Archeologico di Sarnath.
Tanto bello e ben restaurato da diventare il simbolo dello Stato Indiano e venire raffigurato su francobolli, monete, sigilli statali, ecc.
Ma allora cosa hanno scritto quegli eminenti studiosi di ‘misteri archeologici’?
La “Colonna di Ashoka” – anzi le vere “Colonne di Ashoka”! – non sono di ferro, non sono a Delhi, non sono composte da elementi di ferro saldati tra loro,  non sono alte  sette metri, certamente non sono intaccate dalla ruggine, ma non perché siano state fatte con una misteriosa lega di metallo, semplicemente perché… sono di pietra !
 
        
2. Immagine sopra; Ben poco rimane di una delle vere Colonne di Ashoka! Ma almeno sappiamo che non erano di ferro e non erano state realizzate… dagli extraterrestri. I frammenti qui raffigurati si trovano a Sarnath.
 
Eppure i particolari che il dottor Volterri mi ha dato a riferimento erano dettagliati, chiari, precisi…
Gli autori innanzi citati concordano tutti nelle loro affermazioni, e allora?
Eppure qui è tutto chiaro, cosa racconterò quando dovrò riferire sull’esito delle mie ricerche?
Fotografo diligentemente ogni particolare, ogni cartello indicativo. E il minimo che ora possa fare…
Vado poi a visitare il Museo. Interessantissimo!  
Raccoglie splendide statue, preziosi reperti archeologici ed una bellissima raffigurazione del Buddha dell’epoca Gupta in pietra rosata, seduto nella posizione del loto e con le mani forma un mudra, il simbolo del Dharmachakrapravartana, ovvero l’atto di far girare la ruota del Dharma, sinonimo della religione e della dottrina del Buddha stesso. Il viso e gli occhi chiusi esprimono la beatitudine e la serenità di chi è al di sopra delle umane miserie.
Raccolgo molte testimonianze sia fotografiche che ufficiali riguardanti la Colonna di Ashoka. Quella vera, s’intende!
Ora non mi resta altro che ritornare a Delhi e andare al Qutb Minar a scoprire che cosa i signori Charles Berlitz, nel suo libro “I misteri dei mondi perduti”, (Sperling & Kupfer, 1977. Pag. 62), Peter  Kolosimo in ‘Odissea stellare’, (SugarCo, 1974. Pag. 89) e il noto esperto di paleoastronautica Erik von Däniken intendano per Colonna di Ashoka.
Una corsa, si fa per dire dato il traffico caotico, in taxi al quartiere di Mehrauli, alla periferia di Delhi mi svela in due minuti il mistero.
La Colonna di ferro che svetta nel cortile della Moschea Quwwat ul-Islam Masjid,  costruita tra il 1193 e il 1197, è in realtà l’Iron Pillar,  detto anche Pilastro Gupta.
Ashoka, con tutto il rispetto a lui dovuto, non ha nulla a che fare con questo pilastro di ferro che è stato posto al centro del cortile della Moschea, sullo sfondo di tre archi a sesto acuto, nel 413 d.C.
Anche questo pilastro reca un’incisione (abitudine diffusa in tempi in cui non esistevano altri mezzi atti a far conoscere editti, leggi e comunicazioni importanti ), ma si tratta di un’epigrafe scolpita a ricordo dell’Imperatore Chandragupta II che regnò nel III secolo d.C..

3. Immagine sopra; l’iscrizione sull’Iron Pillar a ricordo dell’Imperatore Chandragupta II che regnò nel III secolo d.C..
 
4. Immagine in basso; l’Iron Pillar in una foto ottocentesca.
 
Fu eretto da Kumara Gupta nel 413 d.C. e – dal punto di vista archeometallurgico – non ha proprio niente di particolarmente misterioso. 
Non si tratta di una lega metallica sconosciuta o, come sostiene qualcuno, frutto di civiltà extraterrestri e non è rimasta all’aperto per più di 4000 anni perché è stata posta nel cortile della Moschea Quwwat-ul-Islam nel 413 della nostra Era.  Quindi ha, al massimo, 1600 anni.
Certamente non pochi, ma in archeologia la cronologia è la cronologia!
La ragione per cui la nostra colonna, esposta alle intemperie da sedici secoli non arrugginisce non è poi così misteriosa. Lo scienziato indiano Balasubramanian, dell’Istituto Indiano di Tecnologia di Kampur, ha scoperto che la resistenza del pilastro alla ruggine è dovuta ad un sottile strato protettivo, prodotto dalla lega metallica, che isola la colonna di ferro dalla normale usura del tempo e dalle azioni atmosferiche. Lascio però la parola a chi è esperto di metallurgia e può scendere in particolari che io assolutamente ignoro…
Quanto segue è infatti parte di un articolo che il dottor Roberto Volterri pubblicò nel 2003 su una rivista di settore, a firma anche di Giuliana Pedroli Piras, per fornire una scientifica spiegazione all’incorruttibilità dell’Iron Pillar. Vediamo…

Colonne di Ashoka in giro per l’India.             

Innanzitutto dobbiamo precisare che di vere Colonne di Ashoka ce ne sono parecchie.
Una sta a Lumbini, altre stanno a Vaishali, a Allahabad e a Sarnath. E su quest’ultima concentreremo ora la nostra attenzione…
 

5. Immagine sopra; Il sovrano Ashoka viene ricordato anche ai nostri tempi, come illustra questa moneta in cui appaiono i quattro leoni che sovrastano le colonne a lui dedicate.

6-7-8. Immagini sopra e sotto; Il sovrano Ashoka, evidentemente, non badava a spese. Ecco alcune delle sue colonne (rigorosamente in pietra e non di ferro!). La prima in alto è quella di Lubini, a seguire quella di Vaishali e in basso il capitello con i quattro leoni della colonna di Allahabad.

Una delle vere Colonne di Ashoka (dunque quelle in pietra, quella di Sarnath!) presenta un’iscrizione redatta in tempi successivi. La più antica è un editto dell’omonimo imperatore, è scritta in lingua brami, usata durante la dinastia Maurya, e vi si ammoniscono i monaci e le monache contro eventuali scismi. Il testo prosegue con il ricordo del quarantesimo anno di regno di Asyaghosha di Kaushambi e termina con notizie riguardanti i maestri della setta Sammyitya e della scuola Vastiputraka.
Infatti, fu intorno al 321 a.C. che il re Chandragupta Maurya sottomise tutta l’India del Nord e concentrò il potere nella città di Pataliputra (oggi chiamata Patna).
A lui succedette Ashokavardhana, più noto come Ashoka (sì, proprio lui!) che si convertì al Buddismo dichiarandolo religione di Stato. Invece, l’Iron Pillar fu posto in loco durante la dinastia Gupta che iniziò a svilupparsi, soprattutto, durante il regno di Chandragupta II.
9-10. Immagini sopra e sotto; Iscrizioni poste nei pressi dell’Iron Pillar in cui appare chiaro (nel riquadro) il riferimento al re Chandragupta II.
Dunque, come nacque l’equivoco, dato che circa sette secoli e centinaia di chilometri separano i due eventi?
Potremmo avanzare un’ipotesi ed una precisazione:
a) Poiché l’imperatore Ashoka, il quale fece realizzare (nel III secolo a.C.!) la colonna in pietra che porta il suo nome, fece incidere su di essa e su molte altre i propri editti, e poiché sull’Iron Pillar appare un’iscrizione simile – ma in caratteri Gupta, peculiari del IV secolo d.C.! – è possibile che si siano, diciamo così, fuse le informazioni e che anche l’incorruttibile colonna di ferro sia stata a lui attribuita.
b) Poiché sembra appurato che l’Iron Pillar fu infisso nel terreno nel 413 d.C. e su di esso fu inciso l’epitaffio per l’imperatore Chandragupta II (375 – 413 d.C.), non appare affatto plausibile sostenere che fu portata a Delhi nel X° secolo dai musulmani come sosterrebbe Charles Berlitz.
É, invece, abbastanza probabile che essa provenga effettivamente da un’altra località dato che in questo sito archeologico non esistono altre testimonianze ad essa coeve.  Una tradizione locale vuole che essa provenga da un luogo non identificato, lì portata ad opera del re Anangpal. Finalmente, dopo decenni di congetture più o meno fantasiose sulle ragioni per cui la colonna di ferro di Delhi – l’Iron Pillar – non si arrugginisce da ben sedici secoli, si è arrivati a una razionale spiegazione che non invoca, certamente, interventi extraterrestri, tecnologie aliene e così via.
 

Per un po’ di fosforo in più…

 
In ossequio al sano principio dell’economia delle cause, mediante opportune indagini archeometallurgiche, lo scienziato indiano Balasubramanian del Dipartimento di Ingegneria Metallurgica e dei Materiali dell’Istituto Indiano di Tecnologia, a Kampur, ha messo in luce che l’eccezionale resistenza alla corrosione dello straordinario manufatto è dovuta alla formazione di un sottile strato protettivo sulla superficie del metallo, in grado di contrastare efficacemente i processi fisico-chimici che naturalmente avrebbero dovuto aver luogo. L’analisi dei prodotti di corrosione – presenti in verità in minima parte – formatisi durante alcuni secoli sull’Iron Pillar hanno rivelato che essi contengono Ossidrossido di ferro amorfo e magnetite, oltre a fosfati in forma cristallina. L’ossido di ferro contiene, in realtà, vari composti tra cui la lepidocrocite (γ-FeOOH), la goethite (α-FeOOH), la misawite (δ-FeOOH) e la magnetite (Fe3O4).
I composti del fosforo appaiono sotto forma di fosfati di ferro idrato (FePO4. H3PO4.4H2O) e la loro presenza è essenziale per il formarsi dello strato protettivo. In pratica, nel corso dei secoli hanno avuto luogo i processi fisico-chimici che ora esamineremo.
L’assenza di corrosione superficiale dell’Iron Pillar è dovuta al formarsi di uno strato protettivo a causa dell’anomala percentuale di fosforo (P) nella fusione dell’antico manufatto. Un caso?
Una volta esposta la colonna all’influenza degli agenti atmosferici – agli inizi del V secolo d.C. – si formarono dapprima i composti che abbiamo già definito come lepidocrocite e goethite. Purtroppo questi composti non potevano offrire ancora un grado di protezione sufficientemente elevato, tale da impedire il formarsi dei soliti prodotti di corrosione caratteristici di qualsiasi manufatto in ferro in condizioni climatiche caldo-umide. Ma sì, la solita… ruggine!
Successive reazioni del metallo con l’ambiente circostante hanno dato luogo al formarsi di un sottilissimo strato di misawite a cui è dovuta, in definitiva, la reale protezione del manufatto. La misawite si forma in presenza di fosforo che funge da catalizzatore.
Non appena iniziò a formarsi la misawite – verosimilmente uno o due anni dopo la posa in opera dell’Iron Pillar, quindi verso il 415 d.C. – la resistenza alla corrosione aumentò considerevolmente, poiché tale composto formò un’invalicabile barriera tra il sottile strato di ruggine creatosi e il sottostante metallo. In particolare, nell’Iron Pillar ma anche in altri manufatti della metallurgia indiana dell’epoca, è la presenza nel metallo di una percentuale di Fosforo superiore allo 0,1% che ha permesso lo svolgersi delle interessanti reazioni chimiche prima descritte ed ha, quindi, contribuito al formarsi di strati autoprotettivi nei confronti della corrosione.
Prima di Balasubramanian, comunque, altri ricercatori si erano dedicati allo studio della strana Iron Pillar di Dheli.
Iniziò J. C. Hudson con un suo articolo pubblicato nel 1953, sulla prestigiosissima rivista “Nature”. Egli pose alcuni piccoli lingotti di acciaio vicino allIron Pillar e misurò la perdita di peso dopo avere eliminato i prodotti della corrosione formatisi nel tempo. Stabilì che il tasso di formazione della ruggine – nel periodo 1950-1951 – era pari a 0,23 mpy (cioè mils per year, dove  1 mil è pari a 1/1000 di pollice, cioè 25,4 μm).
Nel 1963 altri tre ricercatori, Lahiri, Banerjee e Nijhawan, andarono oltre ed esposero un piccolo frammento dell’Iron Pillar, prelevato dunque proprio dalla colonna, all’atmosfera industriale della città di Jamshedpur e, dopo tre anni e mezzo, stabilirono che il tasso di corrosione era di 0,261 mpy. Direi che i dati concordano abbastanza.
Analisi ‘distruttive’ al minimo hanno poi consentito di determinare la composizione della lega ed anche i valori quantitativi dei vari elementi chimici in essa presenti.
12. Immagine sopra; Composizione della lega dell’Iron Pillar secondo varie analisi effettuate dall’inizio del Novecento. Tratto dalla pubblicazione di  Balasubramanian“On the corrosion resistance of the Delhi iron pillar “.
 
Ma il pericolo per l’Iron Pillar non proveniva soltanto dal tempo atmosferico…
 

Baci e abbracci…

 

Un’antica tradizione vuole che chi riesca ad abbracciare l’intero pilastro con le mani dietro la schiena vedrà realizzati i propri desideri. Un po’ come la romana Fontana di Trevi, insomma.
Ma, abbraccia oggi, abbraccia domani, la superficie della colonna cominciava a cambiare colore…
Così la Sovrintendenza Archeologica dell’India ha da tempo provveduto a proteggere la colonna di ferro dall’amorevole – e interessato! – “abbraccio” dei visitatori, spinti appunto dal fatto che la tradizione prevederebbe la ‘buona sorte’ per chi fosse riuscito ad abbracciare interamente la colona stessa ma con le braccia rivolte all’indietro.
Una sorta di castissimo ‘Kamasutra’ metallurgico o quasi!
Ovviamente tali abbracci risultavano impossibili a compiersi  ma, si sa, la speranza  e la credulità umane sono le ultime a morire.
Secoli di abbracci cominciavano quindi a creare qualche problema al pur resistentissimo manufatto e si arrivò così alla costruzione del recinto in Ferro che si vede in una delle foto di questo articolo.
Ora si può ammirare la strana colonna ma non la si può più abbracciare…

13. Immagine sopra; Ora non più, ma una volta era ancora possibile compiere il curioso rito apotropaico consistente nell’abbracciare l’Iron Pillar. Non proprio come fa questo inesperto turista…

 

In conclusione, qualche indagine sul campo, approfondimenti sulle ricerche effettuate con metodi scientifici e finalmente si è fatta un po’ di chiarezza sull’inesistente Colonna di Ashoka (in ferro!) e sull’Iron Pillar che il buon Ashoka non ebbe mai neppure occasione di vedere.
Non fosse altro perché aveva abbandonato questa valle di lacrime da circa otto secoli!
Strano però che lo stesso equivoco sia stato fatto da  autori tanto noti e di indubbia preparazione! Tempo lontano, terre lontane, ma come è possibile che proprio nessuno se ne sia accorto prima ed abbia rilevato l’errore?   Capita…
Ashoka e Chandragupta possono ora riposare tranquilli. Chiarezza è stata fatta,  almeno sull’attribuzione delle colonne.

 

14-15-16. Immagini sopra e sotto; Tre fasi del processo di deposizione dello strato protettivo sull’Iron Pillar: in sequenza, un dettaglio di una zona prima che venisse protetta dal contatto con i visitatori, al centro dopo un anno (1988) e a destra dopo tre anni (agosto 2000). Ha riacquistato l’originario colore!

Last but not least…

 

Dopo attenta ricerca Giuliana Pedroli Piras ha avuto modo di constatare che  altre fonti riportano la Colonna di Ashoka al suo vero posto, cioè Sarnath.  Louis Frederic nel suo libro ‘L’India mistica e leggendaria’ – (Neri Pozza, 2003. Pag. 107-108) racconta  “… si erge, all’interno di un piccolo recinto  . . . il fusto spezzato di un pilastro eretto da Ashoka, sul quale egli fece incidere alcune sue prescrizioni ai monaci affinché non facessero nascere uno scisma in seno alla comunità. La colonna, perfettamente levigata, doveva misurare una quindicina di metri di altezza per un diametro di base di 70 cm.   Tagliata in un solo blocco di pietra giallastra, era sormontata da un capitello a forma di loto rovesciato di stile achemenide, sostenente quattro leoni addossati sopra un fregio raffigurante, in bassorilievo, quattro animali: un elefante, un toro, un cavallo e un leone separati gli uni dagli altri da una piccola “ruota della legge” a 24 raggi.   Sopra questo magnifico capitello doveva trovarsi una “grande ruota della legge”a 32 raggi, della quale restano solo alcuni frammenti. Il loto, il fregio di animali e i quattro leoni addossati si sono conservati intatti e attualmente si trovano nel Museo di Sarnath.  L’India indipendente ne ha fatto il proprio simbolo, col motto
“Saryamevajate” (solo la verità trionfa)… comunque il “capitello dei leoni” resta una delle più belle sculture del mondo, degno di figurare ai primi posti nel patrimonio culturale dell’umanità. Il fatto che sia diventato prima un simbolo buddista e poi dell’India indipendente, testimonia della perennità delle tradizioni”.
Nella raccolta Le Grandi Civiltà, nel volume “India antica” (testo di Maurizio Taddei, Arnoldo Mondadori Editore, 1976, Pag. 17)  viene riportata la fotografia del capitello allo stato attuale e la ricostruzione grafica di come si ritiene fosse in origine, con la ruota del Chakra sopra le teste dei leoni.
Se ancora ve ne fosse bisogno, nel libro ‘Gli editti di Ashoka’ a cura di Giovanni Pugliese Caratelli (Adelphi. Pag. 108) è riportata la traduzione dell’editto XXVII che compare sulla colonna a Sarnath…
 “Da nessuno la Comunità deve essere divisa. Chi, monaco o monaca, esporrà a una scissione la Comunità, deve indossare vesti bianche e abitare in una sede estranea. Questo ordine dev’essere trasmesso così alla comunità dei monaci come alla comunità delle monache.  Così il re caro agli Dei ha detto!”
Un esemplare di questo editto sia esposto presso di voi nel chiostro, e un altro esemplare sia da voi esposto nel luogo di riunione dei devoti laici.  E anche i devoti laici vadano là in ogni giorno del digiuno. per aver piena cognizione di questo editto; e regolarmente ogni ispettore della festa del digiuno si rechi là perché questo editto sia conosciuto ed osservato. E per tutta l’estensione di ogni distretto dovete render noto questo editto, e allo stesso modo in tutte le province dovete far circolare questo editto.
 Tutto ciò per amore di verità storica e per mettere in evidenza, se ce ne fosse bisogno, quanto interesse destano a distanza di tanti secoli capolavori simili.

E per finire, un nostrano Iron Pillar: l’uomo di ferro di  Kottenforst.

 

La ‘magica’ India sarà ricca di misteri, ma noi, nel non meno ‘misterioso’ Occidente, non ci  facciamo mancare nulla! Abbiamo anche noi una sorta di Iron Pillar a “due passi da casa” (faccio per dire!), in Germania, nei pressi di Bonn.
A Kottenforst, nel terreno di un suggestivo parco, è da secoli infissa una strana colonna a sezione quadrata, con il lato di 15 centimetri, denominata (chissà perché) L’uomo di ferro”. Fuoriesce per soli 147 centimetri, ma indagini effettuate con magnetometri indicano che essa penetra nel terreno per poco meno di tre metri. Ebbene, che c’è di strano in una sorta di trave di ferro infissa in un prato?
Di strano c’è che essa non presenta alcuna traccia di prodotti di corrosione – leggasi ‘ruggine’ – sulla sua superficie. Poiché da antiche cronache si evince l’Uomo di ferro si trova in quella posizione fin dal lontano XVII secolo e, verosimilmente, venne utilizzato per delineare la linea di confine tra Alfter e Heimerzheimde, appare strano che in circa quattro secoli esso non abbia mostrano alcun segno di corrosione superficiale. Purtroppo non mi risulta siano state effettuate analisi metallurgiche sul curioso manufatto. Peccato!

17. Immagine sopra; L’Uomo di ferro di  Kottenforst, un nostrano Iron Pillar!

 

– Tutte le immagini sono state fornite dal professor Roberto Volterri. 

PER SAPERNE DI PIU’….
A fil di spada” di Giancarlo Pavat e Roberto Volterri- Amazon.
 

«C’è una quinta dimensione oltre a quelle che l’uomo già conosce; è senza limiti come l’infinito e senza tempo come l’eternità; è la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere: è la regione dell’immaginazione, una regione che potrebbe trovarsi “Ai confini della realtà”.»

 

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